Libertà e indipendenza dell’Europa servono anche all’ambiente
Negli ultimi trent’anni l’Unione europea è stata l’unica area economica a raggiungere, anzi, a superare gli obiettivi del protocollo di Kyoto.
Sul fronte climatico, ha ridotto le proprie emissioni annuali di gas serra di circa 1,5 miliardi di tonnellate equivalenti di CO2 (rispetto ai 5 da cui partiva), senza peraltro che ciò compromettesse la sua crescita economica.
Sul fronte ambientale ha varato legislazioni all’avanguardia nei settori più svariati, dal ciclo dei rifiuti all’efficienza dei motori fino alla tutela delle aree protette.
Pungolate da tali legislazioni, le aziende che operano negli stati membri hanno ottenuto risultati di tutto rispetto nel ridurre lo sfruttamento delle risorse naturali.
Oggi, ad esempio, una singola vacca produce mediamente 9 quintali di latte rispetto ai 6 di trent’anni fa, un frigorifero di ultima generazione consuma 1/5 dell’elettricità rispetto a quello di trent’anni fa, un’auto Euro6 emette 20 volte meno ossidi di azoto e 30 volte meno particolato rispetto a una Euro1 di trent’anni fa.
Le foreste hanno ripreso slancio arrivando a ricoprire il 40% del territorio continentale. Gli sversamenti di plastica nel Mediterraneo avvengono oramai per la maggior parte nei paesi extracomunitari (2/3 solo da Egitto e Turchia).
Con questi risultati alle spalle, il vecchio continente si ritrova adesso a dover scegliere come proseguire. Non è un mistero, infatti, che esso sia andato in controtendenza rispetto al resto del pianeta, dove nello stesso trentennio lo sviluppo economico e il miglioramento del tenore di vita hanno fatto impennare sia le emissioni inquinanti che lo sfruttamento delle risorse naturali.
Per capire quanto modesto sia diventato il contributo dei paesi europei al contrasto della crisi climatica, basta un numero: se l’Unione, come tutti speriamo, centrasse l’ambiziosissimo obiettivo che si è posta per il 2030, eliminando con enormi sacrifici un altro miliardo di tonnellate equivalenti di CO2 ogni anno, eviterebbe all’atmosfera appena 1/50 delle emissioni mondiali.
Praticamente nulla. (Per avere un termine di paragone, se la Cina facesse uno sforzo analogo ne eviterebbe 1/7).
Di fronte a questo dato di realtà, che può sembrare sconfortante, ci sono tre possibili reazioni. La prima è quella di impronta conservatrice che ne approfitta per frenare qualsiasi nuova politica climatica.
Se il risultato è comunque irrilevante, affermano i suoi fautori, tanto vale non procedere oltre e non mettere a rischio, ad esempio, il potere d’acquisto delle classi lavoratrici, che nel breve periodo pagherebbero il conto più salato per la transizione verde.
Per rendere questo immobilismo più scusabile, i suoi sostenitori sconfinano a volte nell’aperto scetticismo sul surriscaldamento globale. Altre volte si improvvisano paladini del paesaggio o di altre risorse naturali che l’Europa sarebbe costretta ad intaccare, ad esempio per installare gli impianti a energia rinnovabile o per estrarre le terre rare.
Ma questa posizione ha un grosso limite strategico. Se è vero infatti che nell’immediato la transizione verde avrà un costo salato, e che lo avrà soprattutto per i lavoratori meno abbienti e meno qualificati, è altrettanto vero che sul lungo periodo porterà a un robusto risparmio per le famiglie e a una maggiore sicurezza collettiva su cibo, elettricità, riscaldamento, raffrescamento e trasporti.
Rischiare che altre potenze concorrenti arrivino a godere di questi benefici prima di noi, costringendoci poi a dipendere dai loro prodotti per colmare il divario accumulato, non è prudente.
Ancora meno prudente è la seconda reazione: quella di stampo progressista, che invoca una conversione green istantanea e radicale come punizione e redenzione per i paesi ricchi.
Ai suoi sostenitori non interessa affatto che l’impatto sull’effetto serra di una scelta del genere sia risibile: gli europei e i nordamericani devono farlo di per sé, per espiare la colpa di essere stati i vecchi colonizzatori e i più antichi responsabili del disastro climatico. E se ciò sul breve periodo li renderà più poveri e più marginali negli equilibri di potere globali, ben venga.
È da simili posizioni radicali che vengono difese le politiche ambientali più sproporzionate e controproducenti, come l’obbligo dell’auto elettrica, la chiusura degli allevamenti o il bando degli imballaggi anche se biodegradabili. L’esigenza morale di punire e redimere è talmente dominante, rispetto all’esigenza pratica di fermare l’effetto serra, che soluzioni efficaci come il nucleare e le biotecnologie finiscono anch’esse nel mirino.
Anche questa reazione ci espone a rischi enormi, stavolta sul breve periodo: deserto industriale, aumento del costo della vita, crollo dei consumi e soprattutto dipendenza da quelle potenze rivali che saranno state più caute nel riformare i loro metodi di produzione.
In breve, sia se restiamo immobili, sia se ci precipitiamo fanaticamente verso la redenzione ecologica, rischiamo di finire sotto l’influenza della Cina o di altri grandi regimi autoritari, di perdere la nostra autonomia economica, e insieme ad essa di gettare al vento anche la nostra libertà politica.
Ma la nostra libertà politica è uno degli asset più preziosi per l’umanità messa di fronte alla crisi climatica.
I regimi autoritari, infatti, hanno come scopo primario la propria sopravvivenza, e solo in seconda battuta la sopravvivenza del proprio popolo (per non parlare della sopravvivenza di altri popoli). In quei regimi, la stampa e l’opinione pubblica discuteranno di clima solo nella stretta misura in cui ciò sarà funzionale agli interessi del regime, e non di più.
Nelle democrazie liberali come le nostre, al contrario, è sempre virtualmente possibile sostituire un governo quando la sua permanenza al potere contrasta col bene della collettività (lo si è visto negli anni del Covid), ed è sempre concretamente possibile imporre un problema all’attenzione del pubblico, anche contro la volontà del governo, grazie alle libertà di stampa e di associazione. Quando si chiede a Greta perché non vada a manifestare a Pechino piuttosto che a Bruxelles o a Washington, sotto la provocazione c’è l’individuazione di un problema reale.
La terza reazione, perciò, che ritengo quella più saggia, è scegliere solo quelle politiche ambientali che ottengono un risultato soddisfacente salvaguardando al contempo l’indipendenza e il peso globale delle democrazie liberali.
Vincolarsi a un’unica tecnologia, ad esempio, espone a gravi pericoli: l’abbiamo visto con gli Stati che dipendevano da un singolo fornitore di vaccini durante il Covid, o con quelli che dipendevano da una singola fonte di energia (il metano) durante la crisi ucraina.
Diversificare significa tutelarsi, oltre che incoraggiare una competizione virtuosa tra aziende a chi sviluppa le tecnologie migliori.
Le migliori leggi dell’Unione Europea sono quindi sempre quelle che fissano una soglia numerica oggettiva (ad esempio per le emissioni dei motori, per il fertilizzante nei campi o per il consumo d’acqua negli allevamenti) e lasciano che il mercato si adatti ad esse con tutte le risorse che ha, incentivandolo dove necessario.
I modelli di produzione europei possono essere poi condivisi con altri paesi meno sviluppati: o con le buone, attraverso partnership e investimenti, o con le cattive, attraverso il meccanismo di adeguamento dei prezzi alla frontiera (CBAM) che finalmente è in dirittura d’arrivo. Quest’ultimo è un dazio doganale su quelle merci extracomunitarie che di per sé verrebbero vendute a basso prezzo perché i loro produttori hanno meno vincoli ambientali da seguire rispetto ai produttori europei: un modo per sfruttare la nostra posizione di mercato più grande del mondo (finché durerà) per il bene superiore dell’ambiente.
È anche per questo, tra l’altro, che il nostro peso internazionale deve essere ben preservato. Iniziative come il CBAM o gli investimenti nel Sud del mondo sono la vera strada maestra con cui noi europei possiamo ancora contribuire alla lotta al cambiamento climatico, molto più del misero 2% di emissioni che possiamo (e, con calma, dobbiamo) ridurre agendo entro i nostri confini.