Le riforme dell’Unione europea, in tempo di guerra

Federico Petrangeli
Consigliere parlamentare del Senato della Repubblica

Nella sua tremenda tragicità, l’aggressione russa all’Ucraina ha riproposto con urgenza alcuni nodi significativi del funzionamento del sistema istituzionale dell’Unione e delle prospettive della sua riforma.  Partiamo dal tema della fornitura di armamenti a Kiev. Il Consiglio Ue ha approvato il primo pacchetto di aiuti il 28 febbraio 2022, ad appena quattro giorni dall’invasione. La rapidità della reazione (almeno secondo i tempi brusselesi) si deve alla gravita dell’azione di Putin e all’unità d’intenti delle capitali, ma è stata senz’altro facilitata dalla disponibilità, nell’ordinamento Ue, di un meccanismo adatto allo scopo. Questo istituto, lo “Strumento europeo per la pace” era stato istituito circa un anno prima, per una duplice esigenza: rafforzare il meccanismo di finanziamento delle missioni Ue e sostenere misure di assistenza nel settore della difesa a paesi o organizzazioni regionali, anche al di fuori del continente africano. Si prevedeva anche, per la prima volta, la possibilità di fornire armamenti a Paesi terzi. Questa previsione aveva suscitato le perplessità di diversi Stati membri, anche per i loro vincoli costituzionali interni. Per superarla, il regolamento istitutivo ha previsto una particolare forma di “astensione costruttiva": per assegnare i fondi ci vuole l’unanimità degli Stati, ma un Paese, che sostiene in linea di principio la misura, può non partecipare al finanziamento delle forniture di armi, purché si impegni a versare una quota maggiorata per misure di assistenza di altro genere. Grazie a questa clausola, l’Ue ha potuto mantenere la sua unità, di fronte all’aggressione ucraina, nonostante la posizione di Irlanda, Austria e Malta, che non hanno contribuito all’invio di armi, ma – condividendo la necessità di sostenere Kiev - hanno finanziato le forniture di carburante, di attrezzature mediche e di dispositivi di protezione.  Se dunque vero, come si ripete spesso, che per superare la debolezza della politica estera e di sicurezza dell’Unione ci vuole una più forte “volontà politica” (degli Stati), è altrettanto vero che meccanismi istituzionali efficienti e ben congegnati (come lo Strumento europeo per la pace), sono di grande aiuto. Anche le regole e i meccanismi istituzionali, del resto, non sono frutto del caso o della buona sorte, ma di scelte politiche lungimiranti, magari costruite con fatiche, tenendo conto delle sensibilità degli Stati e delle posizioni delle famiglie politiche europee.  Di certo se, dopo il 24 febbraio, l’Ue avesse dovuto creare ex novo uno strumento per sostenere militarmente il vicino aggredito, tutto sarebbe stato più lento. E la reputazione internazionale dell’Unione non ne avrebbe tratto giovamento. 

Un discorso simile si può fare sulla questione del superamento dell’unanimità nella politica estera e di sicurezza. Il tema non è nuovo, ma di sicuro è rinnovata la sua urgenza, alla luce sia dell’aggressione all’Ucraina che dei prossimi probabili allargamenti. Non sono mancati, dallo scoppio della guerra, ritardi, compromessi o deroghe, per la difficoltà di mettere tutti gli Stati d’accordo. Nell’XI pacchetto di sanzioni, giusto per fare un esempio, si prevede un’eccezione ai divieti di importazione dalla Russia per quanto necessario “all’esercizio, la manutenzione o la riparazione delle vetture della linea 3 della metropolitana di Budapest”. È mai possibile che- di fonte alla guerra e al mondo che cambia, si debba tener conto di cose come questa?  E un discorso simile potrebbe farsi per i diamanti, l’uranio, la gomma sintetica o altro. Cosa fare, dunque? Si tratta di ampliare le materie in cui il Consiglio decide a maggioranza. La via maestra, ovviamente, sarebbe quella della revisione dei trattati. Nonostante le conclusioni della Conferenza sul Futuro dell’Unione e la richiesta formale del Parlamento europeo di istituire una Convenzione (cui in teoria il Consiglio sarebbe tenuto giuridicamente a dare seguito), questa strada non è però al momento. Non resta allora che ragionare su quanto si possa fare “a Trattati vigenti”. Già durante la presidenza ceca (secondo semestre del 2022), si sono svolte in Consiglio diverse discussioni informali. A maggio, su iniziativa della Germania, un gruppo di nove Paesi (poi diventati dieci) ha espresso l’impegno di ampliare la sfera della maggioranza qualificata “in modo pragmatico, concentrandosi su misure pratiche concrete e basandosi sulle disposizioni già previste”. Nella sostanza significa utilizzare il più possibile le c.d.  “clausole passarella”, in base alle quali il Consiglio, all’unanimità, può decidere che una certa materia, per il futuro, sarà decisa a maggioranza qualificata. Il blocco dei Paesi contrari, però, è piuttosto ampio, e va ben al di là di quelli prevedibili (per dire, Polonia, Ungheria e i Paesi più piccoli). Quel che è peggio è che anche tra gli Stati firmatari della lettera di inizio maggio ci sono già state, tra cui, purtroppo, anche quella del nostro Paese. Non resta che sperare nell’iniziativa del Parlamento europeo, che sta approvando una risoluzione che propone tre diverse scansioni temporali, a seconda delle materie, per il passaggio al voto a maggioranza, attraverso le “passarelle”:  la fine del 2023, per le sanzioni contro la Russia e contro le violazioni dei  diritti umani; il termine del mandato della Commissione, per le posizioni Ue sui diritti umani nei contesti multilaterali, per gli accordi internazionali in materia di sicurezza e per missioni civili Ue e, infine, la prossima legislatura, per tutto il resto (ad esclusione delle operazioni militari esecutive). Purtroppo il Parlamento europeo non può decidere da solo, può stimolare gli Stati a farlo.  Siamo insomma nel campo delle dichiarazioni politiche. La politica, appunto…