Turchia e Iran nel Grande Medio Oriente

Laura Mirachian
Ambasciatrice, membro del Consiglio Direttivo del CeSPI

Due sono i paesi della regione generalmente considerati scomodi e al contempo ineludibili: la Turchia e l’Iran. Entrambi hanno un passato glorioso, in fase di tentata riedizione. Se abbiamo la pazienza di ripercorrere le mappe dei tempi andati, troviamo che sono questi due imperi, ottomano e persiano, a dominare l’area per secoli, assieme all’impero russo più a nord. Conosciamo bene gli Ottomani della Sublime Porta, soprattutto se siamo nati nel nord-est veneziano, conosciamo meno bene i Persiani, o Parti, che pure, procedendo a ritroso nel tempo, furono a lungo la spina nel fianco della Siria Romana lungo il limes di Palmira.  Ancorché il potere dominante di questi imperi nel Grande Medio Oriente abbia subito pesanti contraccolpi dopo l’arrivo degli Arabi nel VII-VIII secolo, con il relativo corredo di conflittualità inter-islamica, e poi con l’intrusione degli occidentali d’Europa a partire dall’epoca napoleonica, con epocali contaminazioni in termini di modernizzazione e influenza culturale, i due paesi hanno gelosamente preservato un’identità distinta, nonché la storica aspirazione ad una influenza dominante del Grande Medio Oriente.

Ritroviamo oggi nello scacchiere mediorientale queste due precise identità alle prese vuoi con le turbolenze del mondo arabo vuoi con l’assertività russa, nel contesto di perduranti tensioni socio-economiche interne e assetti di potere alquanto problematici sul piano degli standard democratici. Per entrambi, la grande partita geopolitica investe il Mediterraneo. Per l’Iran, trattasi dell’area che si estende dal Golfo al Mediterraneo sulla rotta Yemen (Houthi)- Iraq- Siria-Libano-Palestina (Hamas), per la Turchia dell’area che va dal Caucaso al Mediterraneo allargato ai Balcani, e alla verticale Africa. Per entrambi viene in rilievo anche l’Asia Centrale. Nei rispettivi percorsi, sia Iran che Turchia devono tradizionalmente gestire Russia e Occidente, nonché Israele. La strategia e le dinamiche presentano punti di contatto ma anche differenze.

La Turchia ha una familiarità con Unione Europea e Occidente che risale all’accordo di cooperazione del 1962 e all’adesione alla compagine Nato del 1952.  L’ascesa di Erdogan nel 2003, che ha scalzato il partito laico erede di Kemal Ataturk, ha accentuato l’ambizione di proiezione regionale specie nel mondo arabo-islamico, prima con la formula accattivante ‘zero problems with neighbourhood’ poi con la strumentazione politico-militare tradottasi nelle incursioni in Siria intese ad abbattere Assad, anche al costo di connivenze con ISIS e componenti islamiche radicali, e a conquistare fette di territorio in funzione ‘difensiva’ rispetto alla componente curda del Rojava accusata di commistioni con il PKK nazionale. Questa politica si è poi estesa al Nord Africa, in Libia, puntando sulle difficoltà euro-occidentali a contenere se non risolvere la crisi, nel Caucaso, puntando su assonanze con l’Azerbaigian alimentate dal suo problema con l’Armenia nel Nagorno Karabach, e ben oltre, in Africa, puntando sulla straordinaria tecnologia militare a basso costo (i droni TB2 Bayraktar, richiestissimi in Etiopia, Libia, Somalia, Togo, Senegal, Nigeria etc) nonché sull’industria civile specie nel settore costruzioni. Ma Ankara è affamata di idrocarburi e anche per questo, nella sua tensione verso l’espansione, Erdogan pratica costantemente il metodo della mediazione con la Russia di Putin, in Siria, Libia, Caucaso, e da ultimo in occasione della guerra in Ucraina ove Ankara ha aderito alla Risoluzione UNGA del 2 marzo di condanna all’aggressione russa ma chiarendo che non applicherà le sanzioni. Inedito e spregiudicato l’acquisto di SS-400 russi, che conferma la politica dei ‘due forni’ rispetto a NATO e Russia. Rapporti costruttivi con Israele, a valere sul bilanciamento delle sue relazioni con il mondo arabo-islamico, e ricerca di un modus vivendi con l’Europa, rimettendosi in gioco mediante il ‘grande gesto’ sui rifugiati del 2016.

L’Iran, per definizione collocato all’opposizione nel mondo islamico a maggioranza sunnita, e per contro forte della propria sofisticata cultura e nemmeno ostile alle minoranze etnico-religiose tradizionalmente presenti (pochi sanno che armeni, ebrei, assiri ed altri siedono nel Majles, e che l’attuale Ministro degli Esteri ha origini armene), è una teocrazia da decenni in relazioni conflittuali con l’Occidente, soggetta dal 2006 a un crescente regime di sanzioni per inadempienze nelle attività di proliferazione nucleare, praticata nel contesto di una politica espansionistica nella regione. Il problema più vistoso riguarda Israele, che Teheran non ha mai riconosciuto considerandola un corpo estraneo in area, ma lo scenario sottende parallelamente un’accentuata competizione con gli Arabi del Golfo per la supremazia regionale. Dirompenti - ancorché teoricamente funzionali alla stabilizzazione dell’area - possono rivelarsi nel contesto gli ‘Abraham Accords’, cruciale strumento collaterale della strategia di ‘massima pressione’ sponsorizzata da Trump e finora non smentita da Biden. A riprova, la programmata missione di Biden a Riad in luglio - preceduta da una sosta a Tel Aviv - intesa a recuperare l’Arabia Saudita, e in particolare MBS dopo la presa di distanza in relazione all’omicidio di Jamal Khashoggi, alla logica di sinergie con Israele, tra l’altro, soprassedendo alle ultime remore sui destini del conflitto israelo-palestinese. Il Governo Bennet è andato in minoranza proprio sui temi della sicurezza nazionale dopo un’ondata di ribellioni palestinesi. La ripresa in gennaio delle trattative nucleari sospese nel 2018 con il ritiro di Trump dall’intesa JCPOA (Joint Comprehensive Plan Of Action) faticosamente conclusa nel 2015 con la partecipazione dell’Europa - che non è mai riuscita a svincolarsi dalle sanzioni americane extra-territoriali - rischia infatti di rivelarsi un esercizio sterile, in presenza di posizioni contrapposte sul ruolo dei Guardiani della Rivoluzione, dominanti nella gestione della tecnologia nucleare e di fatto longa manus della proiezione regionale di Teheran. Israele fa del suo meglio per impedirle: oltre ad una attivissima lobby presso Congresso e Casa Bianca, a Tel Aviv vanno probabilmente imputati i ripetuti attacchi militari di questi anni contro la presenza iraniana a fianco di Hezbollah in territorio siriano, i sabotaggi informatici ad istallazioni iraniane nucleari-e-non, le uccisioni di scienziati nucleari con incarichi di vertice. Metodi che non hanno funzionato, anzi, visto che Teheran ha ripreso l’arricchimento dell’uranio verso la soglia utile a fabbricare un ordigno nucleare, e che la componente radicale legata ai Guardiani della Rivoluzione ha vinto con Ibrahim Raisi le elezioni presidenziali del 2021.  

Quale l’impatto della guerra in Ucraina nello scacchiere in parola? Nuova palestra per l’abilità di mediazione di Ankara? Nuovo alimento per la contrapposizione Iran-Stati Uniti/Israele/Arabia Saudita?   La Turchia sta perseguendo il consueto approccio di mediazione con la Russia, per ora senza esiti, ma potrebbe conquistare un ruolo di primo piano, favorita dalle prerogative previste ai sensi della Convenzione di Montreux, se la sua ipotesi di protagonismo nel facilitare le esportazioni dei carichi di grano andasse in porto. Con ciò rafforzando le proprie posizioni in area, soprattutto con riferimento alle sue ambizioni nel Mar Nero e agli interessi energetici nel Mediterraneo Orientale, e acquisendo meriti di fronte agli sventurati africani che rischiano la carestia. Quanto all’Iran, la vicinanza alla Russia, che ha tra l’altro determinato l’astensione dalla sopracitata risoluzione UNGA, potrebbe rivelarsi un grave handicap in una eventuale confronto con gli antagonisti dell’area, soprattutto ove la guerra continui nel tempo, e anzi si proietti oltre i confini dell’Ucraina come sembrano indicare alcune minacciose avvisaglie. Il suo punto di forza è il rango che occupa trai massimi produttori di idrocarburi, che potrebbero arrivare sui mercati internazionali ove si giungesse alla conclusione del negoziato nucleare. Ipotesi che tuttavia difficilmente verrà percorsa, considerato che l’attenzione occidentale è piuttosto rivolta al bacino energetico saudita e dei paesi del Golfo. In tal senso, la guerra non pare destinata a sovvertire gli schieramenti in area, e il Golfo Persico continuerà ad essere per l’Occidente il Golfo Arabico. L’incognita semmai sono le elezioni di mid-term e del 2024 a Washington.