La crisi in Ucraina e gli impatti per la sicurezza alimentare nell’area MENA
Mentre il conflitto in Ucraina non conosce fasi concrete di de-escalation, le conseguenze multidimensionali della crisi iniziano ad essere avvertite chiaramente anche dai Paesi dell’area MENA. La regione, infatti, vive con grande apprensione le pesanti ricadute che l’evento tragico ha avuto, soprattutto, sul piano della sicurezza alimentare.
Se agli inizi della crisi era stato intaccato soprattutto il comparto dell’energia, con il passare delle settimane il settore agro-alimentare, invece, è stato quello che ha subito i maggiori contraccolpi. Già all’indomani delle operazioni militari lanciate da Mosca il 24 febbraio scorso si è assistito ad un aumento generalizzato dei prezzi del grano e dei cereali. Ciò ha impattato, in particolare, i Paesi a basso reddito dell’area MENA, che utilizzano frequentemente lo strumento dei sussidi alimentari per garantire un accesso privilegiato ai beni primari per le classi sociali più indigenti. Considerando che già nel periodo aprile-dicembre 2021 i prezzi del cibo erano cresciuti dell’80% per via di una serie di fattori legati alla pandemia, oggi l’aumento dei costi produttivi per le imprese agricole, le condizioni climatiche estreme, nonché il più recente aumento del bene cerealicolo del 12,1% nel solo mese di marzo hanno aggravato le storture strutturali che affliggono i Paesi del Medio Oriente e Nord Africa.
Un tale scenario ha avuto un rimbalzo feroce specie considerando il fatto che l’Ucraina e il bacino del Mar Nero (quindi anche la Russia) sono considerati un “granaio” mondiale. Da quest’area, secondo i dati dell’Osservatorio della Complessità Economica (OEC), circola il 25-30% del commercio mondiale totale di cereali, di cui Ucraina (quinto esportatore al mondo con una quota di mercato del 7-10%) e Russia (primo esportatore al mondo con il 18-20% delle capacità) coprono in media il 50% dei fabbisogni alimentari dei Paesi dell’area MENA. Tra questi si stima che l’Egitto importi circa l’80% del suo grano da Mosca e Kiev; il 96% il Libano, il 60% la Tunisia, la Turchia e l’Iran, il 50% l’Oman e gli Emirati Arabi Uniti, il 40% lo Yemen e il 37% il Qatar. Un quadro che rischia di essere aggravato da altri due fattori congiunturali. In primo luogo, la Russia produce il 13% dei fertilizzanti a livello globale e, secondo dati FAO, nei prossimi mesi è previsto un ulteriore aumento dei prezzi che impatterà direttamente sui costi delle coltivazioni locali. Basti pensare, ad esempio, che la Tunisia, pur avendo una grande disponibilità di fosfati sul suo territorio utili in agricoltura e nella fabbricazione di fertilizzanti, non è in possesso della capacità produttiva adeguata a realizzarli e quindi deve importare totalmente questi beni. In secondo luogo, i più importanti fornitori regionali di cereali (come Marocco, Algeria, Egitto, Iraq e Iran) sono stati costretti a ridurre fortemente la loro produzione nazionale a causa della prolungata siccità a cui sono andati incontro negli ultimi mesi, comportando quindi un ulteriore aggravio per le forniture e incidendo direttamente sul prezzo finale di vendita del grano.
È evidente che in un tale contesto di crisi ad essere intaccata è stata soprattutto la capacità dei governi di garantire una regolare catena degli approvvigionamenti. Il 90% del cibo nella regione viene importato dall’esterno e tutti i Paesi, difatti, si trovano nel difficile compito di dover sostituire – anche in tempi rapidi – le perdite accertate nelle forniture russe e ucraine con nuove importazioni (forse in futuro da Canada, USA, Uruguay, Brasile o Argentina, ma verosimilmente nell’oggi da Cina e India) e un conseguente rincaro del prezzo dei cereali e di tutti i beni primari. Non di meno, questo scenario avrà impatti notevoli sul generalizzato e già deficitario stato di grave insicurezza alimentare in cui versano molte delle fasce più deboli dell’intera regione MENA allargata – il 20,3% della popolazione totale secondo le rilevazioni 2020 della Banca Mondiale. Una situazione, questa, che potrebbe dare nuovo slancio a scioperi organizzati e a proteste popolari contro il rincaro dei prezzi. Proprio questo fattore è stato cruciale nelle proteste del 2008 e durante le Primavere Arabe del 2011. Tale condizione si presenterebbe così difficilmente amministrabile dai governi dell’area, i quali si troverebbero nella difficile condizione di dover gestire un caotico contesto di crisi dentro i propri confini, con possibili effetti emulativi e/o spillover nell’intera regione.
Altresì appare altrettanto evidente che qualsiasi evoluzione nel rialzo dei prezzi dei beni alimentari sarà direttamente collegato alla durata e all’evoluzione stessa del conflitto militare russo-ucraino. Non a caso, David Beasley, Direttore Esecutivo del World Food Programme, ha messo in guardia dagli impatti devastanti che la crisi alimentare avrà soprattutto in Medio Oriente, sottolineando i rischi legati al rincaro dei cereali. Infatti, secondo le più recenti stime FAO, i prezzi dei beni alimentari aumenteranno del 20% nei prossimi mesi, aggravando ulteriormente l’insicurezza alimentare e, quindi, l’instabilità politica, sociale ed economica dei governi dell’intera area, sempre più incapaci di far fronte al calmieramento dei prezzi (specie per pane, olio o zucchero) e con evidenti squilibri finanziari in materia di spesa pubblica degli Stati. È chiaro che, in un’ottica di lungo periodo, questo tipo di condizione sarà insostenibile e i diversi Paesi dell’area MENA potrebbero essere costretti a dover aprire una nuova linea di credito internazionale condizionata a riforme e investimenti in tecnologie verdi e agricolture sostenibili, che possano garantire una migliore capacità di azione in materia di sicurezza alimentare e una riduzione all’esposizione di queste realtà a shock sistemici interni ed esterni all’area e/o riconducibili ai fenomeni meteorologici e a cambiamenti climatici estremi.
Pertanto, appare evidente che la crisi ucraina, allo stato attuale, abbia già prodotto un profondo impatto sui mercati alimentari, acuendo inoltre le discrepanze interne alla regione MENA, con aree differenti non in grado di assorbire allo stesso modo gli output del conflitto militare. Se è chiaro che le petro-monarchie del Golfo hanno più strumenti e capacità per attenuare parte delle difficoltà descritte grazie all’aumento delle entrate petrolifere, è altrettanto vero che gli attori nordafricani e levantini sono molto più esposti alle criticità del momento in quanto attraversati da condizioni di instabilità diffusa e strutturale. All’orizzonte, dunque, non sembrano scorgersi possibili piani B per le governance mediorientali.