Il dialogo interreligioso come strumento di pace per i popoli del Mediterraneo

Alessandra Ermellino
Parlamentare, Commissione Affari esteri e comunitari della Camera dei Deputati

«Ecco l'opera che il Signore vi affida per questa amata area del Mediterraneo: ricostruire i legami che sono stati interrotti, rialzare le città distrutte dalla violenza, far fiorire un giardino laddove oggi ci sono terreni riarsi, infondere speranza a chi l'ha perduta ed esortare chi è chiuso in sé stesso a non temere il fratello. E guardare questo, che è già diventato cimitero, come un luogo di futura risurrezione di tutta l'area» (Mediterraneo frontiera di pace, p. 90)

Cercare una chiave interpretativa che ricomponga le crisi e i drammi del grande Lago di Tiberiade è un’impresa in cui molti studiosi delle discipline più diverse si sono cimentati, fra questi ritengo opportuno ricordare Predrag Matvejevic col suo Breviario Mediterraneo. Analizzandone le sfaccettature dal punto di vista semantico, tutto sembra ricondurre a un’unica vera certezza: l’osservatore ha di fronte una molteplicità di realtà, di tracce, la cui unica costante è la mutevolezza nel tempo e nello spazio. Un essere vivente, quindi, che continua incessantemente a richiamare la nostra attenzione: a volte più mite ci ricorda quanto vicine e simili siano le sponde dei Paesi che lambisce - lo scorcio del porto d’Algeri quanto mi ricorda la mia Taranto! -, a volte increspato da venti che soffiano da lontano, portatori di contraddizioni e conflitti sempre pronti a esacerbarsi.

Nel Mediterraneo le tensioni sono diventate multidimensionali, sorgono localmente ma subiscono l’influenza di soggetti esterni, per questo molto spesso l’area assiste al coinvolgimento di potenze globali. Ormai si tende a ragionare in un’ottica di Mediterraneo allargato che, sia dal punto di vista sociale che economico, rimane una frontiera caratterizzata da instabilità e repentina mutevolezza.

Oggi l’area vive un quadro d’incertezza diffusa, che innanzitutto non vede i paesi della sponda del Nord Africa - ma non solo loro - stabilizzati dopo le rivolte della Primavera araba del 2011.

Fra questi, per citarne solo alcuni, la Libia che ancora tarda a trovare un assetto stabile di governo e la Tunisia che perde terreno sul piano democratico. Guardando più a est troviamo il Libano, le cui difficoltà crescenti ormai non fanno più notizia, e molti altri sono i centri di potenziale tensione.

Su questi scenari poi, è piombato un cigno nero nel 2020: la pandemia da Covid ci ha mostrato quanto irrilevanti siano i confini fisici, e come, di fronte a problemi globali esistono soltanto risposte condivise. Persino l’ormai stanca Europa è stata capace di guardare con occhio critico ai suoi strumenti, riscoprendo e rinnovando lo spirito sopito dal quale aveva preso vita.

Come se non bastasse, da febbraio scorso il conflitto fra Russia e Ucraina ha innestato ulteriori complicazioni nel quadro geopolitico mediterraneo, oltre che globale: l’urgenza di rivedere i piani di approvvigionamento energetico a fronte anche di cambiamenti climatici epocali, l’approvvigionamento alimentare quale primario fattore di stabilità sociale, le influenze di Paesi terzi e i mutati rapporti fra potenze globali.

L’interconnessione e l’interdipendenza, quali realtà vivide del nostro quotidiano in particolare dopo la crisi sanitaria, hanno alimentato due fenomeni sociali, il primo apparentemente molto positivo che concerne l’incontro globale tra persone favorito dal digitale, il secondo invece che riguarda lo sviluppo e la promozione di ristretti gruppi di persone, veri e propri circoli culturali, religiosi ed etnici incapaci di affacciarsi dalla finestra della propria zona di comfort. Sono i cosiddetti “ghetti urbani”, quali ad esempio le famose banlieu parigine che nel 2015 vennero indicate come l'incubatrice del jihadismo europeo; essi nascono come risposta alla complessità sociale e in sé possono covare estremismi, come il già citato fondamentalismo religioso e l’identitarismo culturale.

Eppure, a guardar bene, chi vive nel Mediterraneo conserva nell’animo uno spirito aperto e accogliente, figlio di quegli antichi commercianti che da Oriente animavano gli emporia con le loro lingue, i colori accesi, le musiche e i cibi che seguivano la fatica del lavoro e degli scambi commerciali.

Il punto è che ci muoviamo in un quadro sempre più complesso, dove sarebbe opportuno rivalutare il ruolo del dialogo interreligioso, portato avanti con pervicacia da Papa Francesco nei suoi ultimi viaggi e da una posizione certamente non privilegiata.

Il Documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune sottoscritto nel febbraio 2019 da Papa Francesco e dal Grande imam di Al-Azhar, Ahmed Al-Tayeb, rappresenta la tappa fondamentale di una visione aperta, e per certi versi coraggiosa, dei rapporti fra cristianesimo e islam. Esso va considerato come l’approdo di un percorso lungo anni che probabilmente inizia sin dagli esordi del papato di Jorge Mario Bergoglio, quando nel corso di una lunga intervista con il direttore di Civiltà Cattolica, padre Antonio Spadaro, afferma che la Chiesa andrebbe intesa come «un ospedale da campo dopo una battaglia» che dovrebbe innanzitutto curare le ferite cominciando dal basso.

Ossia dalle città di cui ha ampiamente parlato nell’esortazione apostolica Evangelii gaudium, descrivendole come il luogo in cui si realizza «la pienezza dell’umanità e della storia», perché nuove culture si generano e si mescolano creando uno scambio di paradigmi, di linguaggi e simboli. Nelle città le persone, nonostante i vari credi religiosi, «condividono le medesime modalità di sognare la vita».

La forza delle città che sostiene la promozione del dialogo interreligioso, il quale va interpretato come la testa d’ariete della sfida che ci vede tutti coinvolti nella costruzione della pace intesa sia come valore ma soprattutto come diritto, è stato ripreso anche nel corso della seconda edizione di Mediterraneo, frontiera di pace, organizzata dalla Conferenza Episcopale Italiana con lo scopo di raccogliere a Firenze i sindaci e i vescovi del mare nostrum per riflettere sul loro ruolo nella costruzione di un Mediterraneo della solidarietà, capace di superare le sue crisi e i suoi drammi. In quella sede, l’allora presidente della CEI, il Cardinale Bassetti, offrì anche al mondo della politica, attualmente impegnata nella soluzione dei contrasti e delle varie crisi, una sorta di guida, ponendo l’accento sulla necessità di favorire «nuovi equilibri internazionali basati sulla difesa e la valorizzazione della persona umana, oltre che su una solidarietà fattiva e concreta”. E ancora: “Se tutti i popoli europei non trovano garanzia di sicurezza nella loro cooperazione, fatalmente trasferiranno nel resto del Mediterraneo le loro tensioni”.

Qui il focus è il Mediterraneo ma il medesimo messaggio sarebbe possibile estenderlo all’intero scenario geopolitico, che dovrebbe primariamente guardare alla persona che convive coraggiosamente con le personali e altrui diversità.

Ed è proprio su questa scia di pensiero che il dialogo interreligioso diventa uno strumento che anticipa e sostiene la convivenza sociale nelle città, popolate da persone impegnate nella realizzazione di progetti condivisi che supportino innanzitutto l’educazione e il lavoro come basi di un patto sociale in grado di tutelare e rafforzare i diritti di libertà e di dignità sociale. Il solco in cui allora dovremmo costruire percorsi di dialogo e comprensione dell’altro da noi, è quello della volontà partecipata di ricostruire e rafforzare legami, che non siano esclusivamente rapporti di forza o economici. Puntare su processi culturali, sociali e spirituali volti non soltanto alla reciproca conoscenza e pacifica coabitazione del Mediterraneo, ma anche a contrastare le strumentalizzazioni dei fondamentalismi da cui genera tanta violenza.

Lo si potrebbe fare, come ha chiaramente espresso Papa Francesco nel 2014, dopo la preghiera per la pace in Medio Oriente insieme all’allora presidente israeliano Shimon Peres, quello palestinese Abu Mazen e il patriarca di Costantinopoli Bartolomeo I, «con una sola parola: fratello. Ma per dire questa parola dobbiamo alzare tutti lo sguardo al Cielo, e riconoscerci figli di un solo Padre».