I limiti del processo di autocratizzazione in Tunisia

Gianni Del Panta
Assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Scienze Sociali, Politiche e Cognitive dell’Università di Siena

Il decennio appena trascorso si è certamente caratterizzato per fenomeni politici contraddittori. Da un lato, abbiamo assistito ad una straordinaria propensione delle masse all'azione. A livello globale, come documentato da Erica Chenoweth, gli anni dal 2010 al 2019 sono infatti risultati quelli con il maggior numero di proteste su larga scala a partire dal 1900, ovvero da quando queste vengono conteggiate. La maggior parte di questi movimenti di protesta sono emersi in contesti autoritari. Al netto quindi del forte elemento sociale che contenevano, la critica alle strutture autocratiche e la richiesta di una democratizzazione della vita politica sono stati elementi importanti nello scoppio e nello sviluppo di queste mobilitazioni. Dall'altro lato però, si deve anche segnalare come partiti e leader con evidenti tendenze anti-pluralistiche abbiano preso piede sia in contesti di democrazie consolidate che in paesi dove le istituzioni e le pratiche democratiche erano più deboli. A differenza dei processi di autocratizzazione del passato, la torsione anti-democratica di oggi tende ad essere più graduale, mancando di un chiaro punto di rottura e caratterizzandosi per una 'morte lenta' della democrazia, spesso innescata da un esecutivo che democraticamente eletto indebolisce i vari poteri che lo controbilanciano – dal legislativo al giudiziario, fino a giungere alle agenzie di monitoraggio e controllo – oppure limita i diritti e la possibilità di esprimersi dell'opposizione politica, dei sindacati e delle varie minoranze. Lo scontro tra questi due opposti fenomeni ha visto, anche per l'incapacità dei movimenti di protesta di dar vita a regimi maggiormente democratici e inclusivi, una chiara vittoria del secondo, alimentando una ricca discussione sui fattori che concorrono a spiegare le ragioni di forza dell'autoritarismo. Si è quindi affermata una diffusa tendenza a leggere le trasformazioni a livello di regime come movimenti unidirezionali verso il polo autoritario. Questa lettura, parzialmente giustificata, tende però a sottostimare le difficoltà che i nuovi aspiranti dittatori potrebbero incontrare nel processo di consolidamento del loro regime. Il caso tunisino sembra particolarmente interessante al riguardo.

Il 25 luglio del 2021, dopo un lungo braccio di ferro durato mesi, il presidente tunisino Kaïs Saïed decide di sospendere il parlamento. In rapida sequenza, vengono poi sciolte l'autorità nazionale per le elezioni e l'organismo anticorruzione. A febbraio, Saïed dissolve anche il consiglio superiore della magistratura e si auto-conferisce il diritto di nomina dei giudici, mentre a fine marzo il tentativo del parlamento di auto-convocarsi per rispondere alle mosse del presidente induce Saïed a dissolverlo definitivamente. L'ultimo tassello che completa il quadro è il progetto di riforma costituzionale, che configura un forte accentramento di potere e risorse nelle mani della figura presidenziale a scapito del parlamento, organo invece centrale nella carta costituzionale del 2014. La recente e nettissima approvazione nel referendum popolare del 25 luglio, per quanto con una partecipazione limitata di poco più di un quarto del corpo elettorale, sembrerebbe così chiudere con successo il processo di autocratizzazione avviato da Saïed esattamente un anno fa. Eppure, il nuovo regime che il presidente si appresta ad instaurare rischia di essere meno solido di quanto potrebbe essere lecito attendersi. Vi sono tre principali ragioni al riguardo.

In primo luogo, Saïed gode di un sostegno popolare ampio, ma che rimane fragile. In gran parte questo trae linfa dalla sua critica radicale al parlamentarismo, al sistema partitico, e alla burocrazia statale: tutti considerati tra i principali responsabili dell'incapacità del regime tunisino di rispondere alle domande di reale cambiamento sociale ed economico emerse dalla rivoluzione del 2010–11. Non stupisce quindi che il tasso di approvazione popolare per le decisioni presidenziali di limitare e in alcuni casi anche azzerare il potere di alcune istituzioni, come ad esempio il parlamento, sia stato e rimanga straordinariamente alto. Nonostante questo però, i vari tentativi di Saïed di trasferire questo 'consenso di opinione' in 'sostegno attivò sono stati tutti alquanto fallimentari. La decisione, ad esempio, di spostare le celebrazioni della rivoluzione dal 14 gennaio (giorno della caduta di Ben Ali) al 17 dicembre (quando il gesto autolesionistico di Mohamed Bouazizi metteva in moto l'ondata di proteste) hanno incontrato una partecipazione limitatissima, mentre tutti i tentativi di chiamare i propri sostenitori a scendere in strada hanno visto la risposta di appena qualche centinaio di fedelissimi. Non è andata meglio neanche con le consultazioni online sulla nuova costituzione: poco più di mezzo milione di cittadini su una popolazione di quasi 12 milioni ha partecipato attivamente – ovvero, il 6 percento del totale e il 16 percento del corpo elettorale. Questo dato è rimasto lontanissimo dall'asticella posta da Saïed a 3,5 milioni di partecipanti e anche dai quasi 3 milioni di voti che l'ex professore di legge aveva ricevuto nel secondo turno delle presidenziali. Quello di cui gode Saïed al momento è quindi un sostegno che, se pur probabilmente maggioritario nel paese, rimane superficiale.

Il secondo fattore che potrebbe limitare alquanto la svolta autoritaria del presidente è la precaria situazione economica del paese. Dopo un decennio di crescita debole, attestatasi ad una media annua di appena l'1,8 percento tra il 2010 e il 2019, il 2020 ha fatto segnare una contrazione del Pil di oltre il 9 percento. Il tanto atteso rimbalzo dell'economia tunisina nel 2021 è stato poi più debole del previsto: il 3 percento circa. Con una bilancia commerciale in profondo rosso e un deficit della bilancia commerciale che dovrebbe arrivare a quasi il 10 percento del Pil quest'anno, il governo tunisino si è rivolto al Fondo Monetario Internazionale (FMI) per un prestito attorno ai 4 miliardi di dollari che dovrebbe contribuire a salvare lo stato da una bancarotta altrimenti certa, o quasi. Come noto però, i prestiti del FMI non sono mai un assegno in bianco. Al contrario, giungono sempre a precise condizioni. Nel caso tunisino, queste riguardano il congelamento della dinamica salariale, il taglio ai sussidi statali e la privatizzazione di alcuni settori dell'economia. In maniera non sorprendente, il potente sindacato tunisino – l'UGTT – ha risposto con uno sciopero generale lo scorso 16 giugno. Questo ha visto una partecipazione massiccia da parte dei lavoratori, che hanno bloccato il settore pubblico, tradizionale bastione dell'UGTT, e il comparto dei trasporti, sia navale che aereo. L'opposizione dell'UGTT a Saïed rimane per il momento di natura sociale, mentre sul referendum ha mantenuto una posizione più ambigua e di fatto non contraria al presidente, invitando i propri iscritti a recarsi ai seggi, senza tuttavia fornire alcuna indicazione di voto. Il pesante deterioramento dell'economia pone, tuttavia, Saïed in una difficile posizione. Da un lato, necessita del prestito del FMI per evitare la bancarotta. Dall'altro, l'accettazione di questo comporterebbe misure di austerità che andrebbero a pesare sulle sue già deboli possibilità di creare un blocco sociale che incorpori, anche se in maniera esclusivamente passiva, le fasce popolari. Anche perché eventuali tagli ai sussidi andrebbero a pesare su una situazione già drammatica per milioni di tunisini, alle prese con un'inflazione che ha toccato l'8,1 percento nel mese di giugno e che in gran parte si concentra sul prezzo del pane, generi alimentari di prima necessità – la Tunisia principalmente importa grano dall'Ucraina – e del gas. Il rischio per il presidente è ovviamente quello di dover presto fronteggiare un movimento di protesta dal basso. Questo introduce il terzo ed ultimo fattore.           

Saïed è consapevole che la sua retorica fatta di anti-parlamentarismo e critica feroce ai partiti non potrà assicurargli un sostegno popolare, anche solo implicito, nel medio-lungo periodo. Se, come sembra, sarà impossibilitato, dato il contesto economico e sociale, a crearsi una base di consenso stabile, non potrà far altro che chiudere gli spazi di dissenso, prima che questi determinino la sua caduta, in maniera più o meno diretta. Anche questo passaggio è però abbastanza stretto. Ci sono due ragioni. In prima istanza, al netto di tutte le contraddizioni, i circa dieci anni di esperienza democratica hanno creato una certa predisposizione di ampi settori della società tunisina alla partecipazione politica e alla contestazione. Questo riguarda ovviamente le classi popolari, ma non solamente. La nuova carta costituzionale ha indotto 40 associazioni ad unirsi in una coalizione per la libertà, la dignità, la giustizia e l'uguaglianza, mentre la decisione presidenziale di licenziare 57 giudici il primo giugno, accusandoli di corruzione e di proteggere sospetti terroristi, ha determinato 3 settimane consecutive di sciopero dell'intera magistratura. Inoltre, il colpo di stato del 25 luglio del 2021 ed i successivi sviluppi hanno gettato le basi per una nuova collaborazione tra forze politiche con orientamenti diversi. La recente formazione del Fronte di Salvezza Nazionale con al suo interno 5 tra i partiti politici più votati nelle elezioni parlamentari del 2019 rappresenta forse il caso più rilevante in tal senso. Per quanto infatti questi possano essere al momento discreditati agli occhi di molti cittadini, la loro piattaforma politica rappresenta in ogni caso un possibile elemento aggregante nel caso in cui la contestazione sociale dovesse aumentare, come probabile che sia, nei prossimi mesi. In seconda battuta, per quanto la sospensione del parlamento è stata accompagnata da un certo e, se vogliamo insolito, protagonismo delle forze armate tunisine, rimane dubbio il grado di repressione che queste siano disposte a mettere in campo. Per quanto visto in questo primo anno di 'pieni poteri' di Kaïs Saïed e di formale stato d'eccezione, il giro di vite contro le forze di opposizione e i dimostranti è stato relativamente moderato. Questo scenario è però destinato a cambiare presto. Data la situazione economica e sociale, il presidente sarà costretto, con ogni probabilità, a virare con ancora più forza verso il polo autoritario. Un movimento che però rischia di infrangersi contro numerose difficoltà strutturali e una piazza che potrebbe presto divenire più affollata e rumorosa. Tutti elementi che, a loro volta, potrebbero spingere vari attori – a partire dall'organizzazione padronale dell'UTICA, che ha più subito che sostenuto le mosse di Saïed – a passare da un tacito sostegno ad una strisciante opposizione. La vittoria referendaria potrebbe così non annunciare affatto il trionfo presidenziale.