Dove va il Libano? Riflessioni post elettorali su un paese alla deriva

Rosita Di Peri
Professoressa associata, Dipartimento di Culture, Politica e Società, Università di Torino

Guardando allo scenario Mediterraneo corrente, il Libano sembra essere il grande assente dai discorsi regionali e internazionali, soprattutto se l’attenzione si concentra sulle dinamiche geopolitiche. Salito agli onori della cronaca per la grave crisi economica scatenatasi dopo la dichiarazione di default del marzo 2020 da parte dell’allora primo ministro Hassan Diab, il paese è stato attraversato dal diffondersi della pandemia da COVID 19 e, successivamente, dall’esplosione al porto di Beirut del 4 agosto dello stesso anno che ha provocato morte e distruzione in buona parte della capitale libanese. Il forte impoverimento della popolazione, l’accrescersi delle diseguaglianze sociali, la carenza costante di servizi di base (elettricità, acqua potabile, sanità, ecc.), hanno reso il Libano, che dopo la fine della guerra civile (1975-1990) è divenuto vieppiù un paese fortemente basato sulle rendite finanziarie, sempre più vulnerabile alle crisi globali e regionali.

Tale vulnerabilità aveva spinto i libanesi a scendere massicciamente in piazza nell’ottobre del 2019 provocando un’ondata di rivolte diffuse su tutto il territorio nazionale attraverso le quali la popolazione tutta ha sfidato, mettendolo in discussione, il sistema consociativo e confessionale che ordina il paese. I manifestanti hanno denunciato a gran voce la corruzione dilagante che tocca tutta la classe politica “nessuno escluso” (killun, yani killun - tutti vuol dire tutti) e il sistema clientelare ad esso sotteso. In uno scenario caratterizzato da una forte sperequazione sociale, da un aumento esponenziale della povertà (si calcola che ormai più del 70% dei libanesi viva al di sotto della soglia della povertà), le proteste hanno sottolineato la necessità di riforme politiche e istituzionali importanti e di un forte rinnovo della classe politica. Per la prima volta dopo la fine della guerra civile i libanesi sono scesi in piazza privi delle proprie bandiere confessionali rivendicando diritti universali e discostandosi dalle rivendicazioni, in parte partigiane, che avevano caratterizzato alcuni dei cicli di protesta degli anni precedenti (2011 e 2015 per esempio).

Tuttavia, il diffondersi della pandemia da COVID 19 ha spinto il governo a imporre successivi lockdown che hanno in qualche modo posto un argine alle proteste scoppiate alla fine del 2019. Anzi, proprio il governo della pandemia è stato il pretesto utilizzato dalle élites politiche per silenziare le rivolte che, soprattutto nel nord del paese, nella città di Tripoli, sono continuate nonostante il divieto di circolazione e il coprifuoco sanitario. In un tessuto politico sfilacciato e a fronte di un consenso sempre più limitato nei confronti di una classe politica inadeguata, incapace di far fronte alle innumerevoli richieste di una popolazione sempre più vessata (e stremata), la pandemia è stata, allo stesso tempo, anche un mezzo attraverso il quale le élites confessionali hanno cercato di rilegittimarsi agli occhi della propria base riappropriandosi del controllo sulle proprie comunità attraverso l’elargizione di servizi su base confessionale (distribuzione di mascherine, aiuti alle persone affette dal virus, campagne di vaccinazione, ecc.).

In questo scenario si sono svolte, il 15 maggio 2022 le elezioni legislative, appuntamento carico di aspettative soprattutto dopo lo scoppio delle proteste del 2019. Eppure, nonostante il forte impegno per il cambiamento, la preparazione di liste elettorali lontane dai partiti politici tradizionali e dai grandi zuama che governano la società libanese, i risultati delle elezioni hanno nuovamente confermato vecchi equilibri e alleanze. Le forze del cambiamento, che pure, complessivamente, sono riuscite ad ottenere 13 seggi in Parlamento, non sembrano avere la forza politica, almeno per il momento, per imporre un deciso cambio di rotta ad un sistema caratterizzato da una profonda corruzione e da un clientelismo ancora largamente diffuso. Nemmeno se queste forze si sommano ai 16 candidati indipendenti eletti (29 sui 128 deputati del Parlamento libanese). Gli echi delle proteste e la loro forza dirompente, tuttavia, sono ancora profondamenti presenti nelle coscienze dei libanesi e presso le varie associazioni della società civile presenti nel paese. Sebbene i risultati raggiuti possano apparire tutt’altro che soddisfacenti, i riverberi delle proteste del 2019 sono ancora forti, come testimoniato anche da conversazioni avute di recente da chi scrive con esponenti di associazioni per i diritti e le libertà civili.  Anche solo la prospettiva di poter bloccare, con il proprio voto, l’iter legislativo, appare come una piccola vittoria. Ciò che sembra dall’esterno, tuttavia, è una ulteriore frammentazione del Parlamento e la prospettiva di un blocco o di un rallentamento delle sue funzioni.

Le prospettive

Le elezioni, dunque, non hanno stravolto il panorama politico libanese come le forze del cambiamento auspicavano. I 13 seggi conquistati in Parlamento, la vittoria di perfetti sconosciuti in alcuni distretti elettorali che parevano inespugnabili, la sconfitta di alcuni “volti noti”, sono tutti segnali incoraggianti e, di sicuro, tali risultati non sarebbero stati raggiunti senza l’impegno costante nelle proteste del 2019. Occorre infatti ricordare che i libanesi sono scesi in piazza tutti i giorni per mesi senza mai stancarsi di urlare la loro rabbia, il loro malcontento e la loro frustrazione. Tuttavia, passata l’eccitazione elettorale, il paese resta in una situazione di precarietà sempre più evidente. Non si riesce a porre rimedio nemmeno alle situazioni di emergenza. Di questi giorni la notizia che il caldo ha fatto macerare i residui di grano presenti nella parte di silos che ancora resta in piedi nel porto di Beirut con conseguenti e continui incendi che non vengono spenti. Mancano le capacità e la volontà di fare fronte anche soltanto all’ordinaria amministrazione e questo è stato ampiamente evidente anche negli anni passati con la crisi dei rifiuti ma anche con il crollo di ponti e altre infrastrutture che mancavano dell’adeguata manutenzione. La rabbia dei libanesi, però, è anche legata all’incapacità (o meglio mancanza di volontà) della classe politica di fare chiarezza e giustizia per l’esplosione al porto di Beirut. I volti delle vittime a downtown Beirut sono lì a ricordarlo ogni giorno...

Quali sembrano essere, dunque, le prospettive per questo piccolo paese, oggi come in passato, così importante per gli equilibri regionali?

Credo che l’attenzione si possa concentrare su un paio di elementi che sembrano cruciali per la futura evoluzione sociale e politica del paese. Il primo elemento concerne, ovviamente, la crisi economica e come questa stia scuotendo il paese dalle fondamenta; il secondo elemento, ad esso connesso, è legato al ruolo di Hezbollah all’interno di questo contesto. Per quanto concerne il primo aspetto va ribadito che, sebbene la crisi del sistema economico e finanziario libanese sia stata in parte determinata dalla graduale rentierizzazione dell’economia (il Libano è un paese ormai quasi del tutto privo di un sistema produttivo autonomo e deve importare la pressoché totalità di beni primari) avvenuta dopo la fine della guerra civile, le radici di tale sistema sono da ricercarsi nel sistema di laissez-faire che da sempre è stata la matrice dell’economia libanese. Tale struttura, che potremmo definire neoliberista ante-litteram, si è rafforzata dopo la fine del conflitto civile inscrivendosi nelle traiettorie del neoliberismo globale che ne ha esasperato alcuni aspetti. In particolare su tale sistema si è innestato il modello consociativo libanese, ossia un sistema penetrato da una onnipresente corruzione e dall’intreccio tra una società largamente governata da relazioni cliente-patrono (soprattutto nelle campagne e nei villaggi) e da un confessionalismo che pone al di sopra dei diritti di cittadinanza l’appartenenza religiosa. Il modello consociativo deviato è stato in grado, negli anni, di perpetuare sé stesso divenendo impermeabile al cambiamento e sfruttando sempre di più le risorse dello stato non per il benessere dei propri cittadini ma per interessi particolaristici. La resilienza di un tale sistema rende difficile prevedere un cambiamento nel breve-medio periodo senza un ricambio totale e strutturale della classe politica (fatto che sembra assai improbabile anche alla luce dei recenti risultati elettorali) e, soprattutto, della gestione consociativo/confessionale della politica e della società.

Il secondo elemento, come si accennava, riguarda la presenza di Hezbollah, il partito di Dio, all’interno di tale sistema. Questo è divenuto sempre più forte nel corso degli anni, non solo come forza della resistenza contro lo stato di Israele ma, soprattutto, come attore chiave della politica libanese. La forza del movimento/partito, si è ancorata ad un processo di legittimazione che lo ha visto protagonista dopo la fine della guerra civile e che ha avuto il suo picco politico nell’accordo siglato nel 2005 con il Free Patriotic Movement di Michel Aoun (l’attuale Presidente della Repubblica), uno dei principali partiti politici maroniti presenti nel paese. Ovviamente anche la cosiddetta “vittoria divina” contro Israele nella guerra dei 33 giorni del 2006 ha avuto un un peso importante in questo processo. Tuttavia, una serie di variabili inaspettate hanno contribuito ad alterare questo quadro. La prima è stata, certamente, l’esplosione delle proteste delle cosiddette “primavere arabe” del 2011 che, sebbene non abbiano coinvolto direttamente il Libano (almeno apparentemente), hanno avuto conseguenze importanti sul paese sia in termini di numeri di rifugiati siriani riversatisi sul territorio libanese, sia per la decisione presa da Hezbollah di sostenere Bashar al Assad nella repressione del suo popolo. La seconda variabile è legata a fatti più recenti ossia al ruolo del partito di Dio durante le proteste del 2019. Ad iniziali dichiarazioni di sostegno ai manifestanti da parte del segretario del partito Hassan Nasrallah, sono seguite intimazioni a ritirarsi dalle piazze seguite dall’invio di casseurs tra le tende montate nelle piazze delle proteste per disperdere i manifestanti. Hezbollah sembra aver dimostrato con tali atteggiamenti di avere a cuore, come le altre forze politiche libanesi avverse al cambiamento, il mantenimento di uno status quo funzionale a preservare i propri interessi politici ed economici. L’aura di novità e cambiamento che aveva caratterizzato l’operato del movimento/partito fin dalla sua comparsa sulla scena politica libanese sembra essersi offuscata pesantemente e, per la prima volta nella sua storia, anche nel sud del paese, feudo del partito, durante le proteste del 2019/2020 immagini e bandiere del partito sono state rimosse o date alle fiamme.

Una non conclusione

Come scienziati/e sociali non dovremmo essere chiamati/e a fare previsioni o a delineare scenari futuri come novelle Cassandre. Al contrario, con il metodo scientifico che dovrebbe contraddistinguerci possiamo analizzare i fatti e i contesti in cui essi accadono. La situazione in cui versa il Libano oggi è una situazione drammatica. Un contesto attraversato da forti tensioni sociali che non possono più essere ignorate ma che, allo stesso tempo, sembrano di difficile risoluzione senza un cambio di rotta repentino che imponga all’attuale classe politica di fare un passo indietro. Un paese in cui la cronica mancanza di attenzione alle reali esigenze di una popolazione stremata e senza prospettive per il futuro spinge gli individui ad emigrare all’estero o a cercare fortuna a Cipro con imbarcazioni di fortuna trovando sovente la morte come in altre parti del mare Mediterraneo. Un paese sempre più in balìa di interessi regionali che hanno un forte impatto sulle dinamiche politiche interne. Tuttavia un paese che, nonostante tutto, continua ad essere un punto di riferimento culturale per tutto il contesto medio orientale: per la sua produzione cinematografica, per quella letteraria, per quella teatrale, per la scena musicale, ecc. Un paese che cerca di porre un argine alla deriva ma che non può farcela senza un cambio di rotta radicale.