Troppo tardi e troppo poco: un dramma ricorrente nel campo della tutela dei diritti umani
In occasione della giornata dei diritti umani del 2024, l’Alta Rappresentante dell’Unione europea (UE) per gli affari esteri e la politica di sicurezza affermava, tra le altre cose, che «la pace richiede lavoro quotidiano» e un «cambiamento significativo e duraturo può essere realizzato solo attraverso un impegno instancabile a favore dei diritti umani». Tutto vero, solo che quell’impegno “instancabile” è mancato troppe volte oppure è arrivato (o sta arrivando) tardi e lentamente.
In un noto libro del 2012, lo storico australiano Christopher M. Clark scelse l’eloquente titolo “I sonnambuli” per descrivere l’atteggiamento degli Stati europei alla vigilia dello scoppio della prima guerra mondiale. Oggi “gli illusi” è forse il termine che meglio si adatta all’atteggiamento di molti governi e decisori politici rispetto a gravi violazioni dei diritti umani: illusi che non stia per succedere nulla di veramente grave, che la situazione non sia poi così seria, che le cose non peggioreranno, che ci si possa girare dall’altra parte impunemente, che i meccanismi giuridico-istituzionali esistenti basteranno, che il proprio alleato saprà dar prova di moderazione.
Quante volte segnali inequivocabili sono stati tralasciati o minimizzati per poi accorgersi improvvisamente che si era di fronte, ad esempio, a un genocidio.
Nel suo agghiacciante libro di memorie (“J’ai serré la main du diable”, ovvero “ho dato la mano al diavolo”), Roméo Dallaire, il comandante canadese dei “caschi blu” delle Nazioni Unite dispiegati in Ruanda a partire dall’ottobre del 1993 nell’ambito della missione UNAMIR, racconta di come non cessò di chiedere al Consiglio di Sicurezza di rafforzare urgentemente la missione alla luce degli sviluppi sul campo. Il 21 aprile del 1994, a genocidio appena iniziato, il Consiglio di Sicurezza approvava all’unanimità la Risoluzione 912, che attribuiva a UNAMIR un compito di mediazione mentre la sua forza veniva ridotta a soli 270 militari.... Come non ricordare anche, in questo contesto, il genocidio (annunciato) di Srebrenica, abbandonata al suo destino in quella terribile estate del 1995, appena un anno dopo il genocidio del Ruanda (nel 1999 una ben diversa volontà politica porterà invece all’intervento unilaterale della Nato contro la Serbia per il Kosovo). E se Ruanda e Bosnia hanno visto poi nascere i primi tribunali penali internazionali dai tempi dei processi di Norimberga e Tokio e se è vero che essi hanno svolto un ruolo importantissimo per le vittime e per l’accertamento dei fatti (la verità giudiziaria internazionale dà anche un contributo cruciale alla ricostruzione della verità storica), ciò non toglie che la dimensione della prevenzione delle violazioni dei diritti umani chiama in gioco anche e prima ancora strumenti di altro tipo (compresi quelli militari di protezione attiva dei civili, che per motivi diversi non funzionarono né in Ruanda né in Bosnia). È vero che quelle tragiche lezioni hanno poi portato, in una serie di casi, al passaggio dal peacekeeping classico (uso della forza solo per legittima difesa del contingente) al c.d. peacekeeping robusto (uso della forza anche per proteggere la popolazione civile). Ma situazioni in cui la popolazione civile si trova esposta a una sofferenza indicibile e del tutto ingiustificata, a fronte di una reazione da parte della comunità internazionale che tarda ad arrivare, sono ancora davanti i nostri occhi in questo 2025, a trent’anni di distanza da Srebrenica.
Impossibile, ad esempio, distogliere lo sguardo dalla Striscia di Gaza. Chi scrive non ha mai smesso di condannare i raccapriccianti e ingiustificabili crimini commessi da Hamas il 7 ottobre del 2023, l’atroce destino degli ostaggi, l’inosservanza sistematica del diritto internazionale umanitario da parte di Hamas. Questo, tuttavia, non esclude non solo le gravissime evidenze che si vanno accumulando a carico di Israele, riguardo al modo in cui sono state condotte le operazioni militari dopo il 7 ottobre del 2023 e al trattamento della popolazione civile della Striscia di Gaza, ma neppure le gravi violazioni del diritto internazionale in corso da prima e che prescindono del tutto dai tragici eventi del 7 ottobre, ovvero il regime di occupazione in Cisgiordania e Gerusalemme Est e le vessazioni crescenti ai danni della popolazione palestinese nei territori occupati, così come la violenza dei coloni armati, sempre più funzionali a una politica al contempo di annessione e di apartheid. Non è questa la sede per affrontare un tema così complesso come quello della questione israelo-palestinese. Limitandoci esclusivamente alla dimensione dei diritti, l’assenza – sin qui – di una reazione seria alle violazioni gravissime del diritto internazionale imputabili a Israele “normalizza”, per così dire, qualcosa che normale e fisiologico non è per nulla, neppure ammettendo la legittimità dell’uso della forza difensivo da parte di Israele all’indomani del 7 ottobre. L’uso della forza armata resta subordinato ai fondamentali requisiti della necessità e proporzionalità e le operazioni militari debbono conformarsi ai dettami del diritto bellico relativi alla protezione dei civili, checché ne dicano i corifei della necessità militare. In una situazione del genere occorre utilizzare senza esitare lo strumento delle sanzioni mirate (contro i vertici del Governo di Natanyahu, contro i suoi esponenti più estremisti e contro gli elementi di spicco fra i coloni radicali e violenti, dato che non si tratta assolutamente di punire gli israeliani nel loro insieme). L’UE, profondamente divisa riguardo al rapporto con il Governo israeliano, è stata sin qui incapace di una qualunque reazione e nel momento in cui si scrive cominciano appena a levarsi voci a favore di misure più incisive per contrastare quella che appare come una deriva sempre più evidente dell’azione militare (e politica) israeliana. Troppo tardi e troppo poco, per usare le parole di Elie Barnavi, ex ambasciatore israeliano a Parigi (intervista al Corriere della Sera del 29 maggio 2025).
Il tema della “normalizzazione” delle violazioni dei diritti umani (in assenza di una reazione severa ma anche tempestiva) riguarda anche l’Europa stessa. Segnali preoccupanti, che dovrebbero indurre a una reazione ad uno stadio precoce, vengono quantomeno sottovalutati, comunque restano senza risposte all’altezza della sfida che essi in realtà costituiscono per il sistema di tutela dei diritti nel suo complesso. Putin arrivò al potere nel 1999 cavalcando una guerra spietata con i civili e assai controversa quale fu la seconda guerra cecena. Gli assassinii politici in Russia cominciarono molto presto, il primo risale al 2003 (tre anni prima dell’uccisione della giornalista Anna Politkovskaja). La Russia non ha mai cessato di cercare di destabilizzare Paesi membri del Consiglio d’Europa come la Moldova o la Georgia (fatto accertato a più riprese dalla Corte europea dei diritti dell’uomo). Si sperava che la Russia pian piano cambiasse quale membro del Consiglio d’Europa? È successo il contrario, ben prima che quest’ultimo si rassegnasse all’inevitabile necessità di espellerla dopo la guerra totale scatenata contro l’Ucraina nel febbraio del 2022.
È non meno chiaro, mutatis mutandis, che l’appartenenza all’UE non ha di per sé impedito che l’Ungheria diventasse uno Stato autoritario. Il problema, tuttavia, non è solo quello di provare ora, tardivamente, a invertirne la deriva. Il punto è anche quello di comunicare innanzitutto alla comunità degli Stati membri dell’UE quel che non è accettabile. Le sanzioni, al di là della loro effettiva capacità di cambiare la situazione all’interno del bersaglio, servono anche a comunicare qualcosa agli altri (F. Giumelli, Le sanzioni internazionali, 2023, pp. 128-130), in questo caso che certi valori “costituzionali” non sono negoziabili perché fanno parte dell’identità e della stessa ragion d’essere dell’UE. Dal 2022 il Parlamento europeo chiede di utilizzare pienamente nei confronti dell’Ungheria l’articolo 7 del Trattato sull’UE (TUE), il quale prevede due distinte procedure: una preventiva e una sanzionatoria. La prima, finalizzata ad accertare un chiaro rischio di violazione, è stata attivata dal Parlamento europeo sin dal 2018, ma si è arenata per mancanza di volontà politica (toccherebbe al Consiglio UE mettere la questione all’ordine del giorno e votare) e comunque la soglia è alta, dato che è richiesto il voto favorevole di 4/5 degli Stati membri.
D’altro canto la procedura sanzionatoria, la c.d. “arma nucleare” ovvero in particolare la privazione dei diritti di voto in seno al Consiglio UE (l’espulsione dall’UE non è prevista dai trattati attualmente in vigore), presuppone una fase distinta in cui il Consiglio europeo decide prima, all’unanimità, che effettivamente vi è stata una violazione seria e continua, dopo di che il Consiglio UE, a maggioranza qualificata, può imporre sanzioni. Questa seconda procedura non può essere attivata dal Parlamento UE, il quale infatti nel 2024 ha chiesto (inutilmente finora) alla Commissione di avviarla.
Le due elevatissime soglie di voto, quella relativa alla procedura preventiva e a maggior ragione quella prevista per poter passare alla fase sanzionatoria (originariamente pensata per l’allargamento a Est), esprimono in fondo la doppia illusione che gli Stati membri dell’UE coltivavano nella – non a caso – ottimistica fase storica (fine anni novanta) in cui fu scritto l’articolo 7 TUE: l’illusione che uno Stato membro UE difficilmente si sarebbe venuto a trovare in una situazione di violazione seria dei valori fondamentali dell’UE e quella che semmai ciò fosse successo, gli altri avrebbero reagito compatti. Il risultato è che nelle condizioni “patologiche” in cui versa ormai l’Ungheria a trazione Orbán, le istituzioni dell’UE sono costrette a reagire attivando una procedura di infrazione dopo l’altra oppure tagliando i fondi (in base a una nuova procedura di condizionalità introdotta nel 2020), strumenti che sino a ora hanno avuto poca presa sul Governo ungherese, il quale riesce ancora a utilizzare il proprio voto, specialmente in materia di politica estera e di difesa (ove è tuttora richiesta l’unanimità), come mezzo di ricatto.
E si è già perso molto tempo: un sistema autoritario, come quello di Orbán, saldamente al potere da anni in un Paese membro dell’UE fa apparire “normale” (in seno all’UE) quello che normale non è. Contribuisce inoltre a creare emuli, dentro e fuori l’UE.
E veniamo infine al nostro Paese. Siamo al riparo da pericolose involuzioni? No, tenendo peraltro presente che l’Italia è sprovvista di un organo nazionale indipendente per la tutela dei diritti umani (“National Human Rights Institution”), insieme a pochissimi altri nell’UE (attualmente 23 organi indipendenti sono ufficialmente accreditati, di cui ben 19 con status A, l’ombudsman romeno è in attesa di accreditamento, l’Ufficio del Commissario ungherese è stato declassato nel 2022, per cui senza alcun organismo restano l’Italia, Malta e la Repubblica ceca). È dal 2000 che tutti i tentativi (disegni o proposte di legge) di dar vita ad un organismo nazionale indipendente per la tutela dei diritti umani sono regolarmente naufragati. È un peccato non solo perché persa l’occasione con maggioranze politiche presumibilmente favorevoli, tutto poi cambia quando al governo arrivano forze politiche per nulla interessate a rafforzare la tutela dei diritti umani, ma anche perché l’assenza di un organismo indipendente, chiamato a svolgere fra l’altro un ruolo di voce autorevole e di interlocuzione/stimolo tecnico rispetto in particolare a Governo e Parlamento, si fa sentire in modo drammatico in occasione del varo di provvedimenti legislativi (come il c.d. “Decreto Sicurezza”, approvato dal Parlamento con Legge n. 48 del 2025, peraltro ricorrendo impropriamente alla decretazione d’urgenza e per di più al voto di fiducia) che contengono in parte disposizioni problematiche, le quali avrebbero certamente meritato un attento vaglio preliminare anche sotto il profilo dei diritti umani e da parte – appunto – di un organismo specializzato indipendente. Certo, a livello interno resta pur sempre – per nostra fortuna – la possibilità di ricorrere alla Corte costituzionale, ma occorre attendere che un giudice sollevi una questione di costituzionalità e poi i tempi fisiologici dell’iter. Nel frattempo le norme in questione potrebbero far danni dal punto di vista della tutela dei diritti umani, laddove è essenziale muoversi in un’ottica quanto più possibile di prevenzione, cui una Commissione italiana indipendente per i diritti umani sarebbe direttamente funzionale. In altre parole, e in conclusione, quest’ultima è uno dei vari esempi di strumenti indispensabili per evitare che situazioni che cominciano a peggiorare arrivino al punto in cui quando si prova a rimediare, nella misura in cui questo sia ancora possibile, ci si trova a farlo in condizioni peggiori. Troppo spesso si dimentica che in materia di diritti umani prevenire è – ovviamente – meglio che curare (e raramente si tratta semplicemente di curare), e che muoversi per tempo è cruciale, a volte letteralmente vitale. Decisori politici e governi prenderanno finalmente sul serio i diritti umani prima che sia – di nuovo – tardi?