Il diritto internazionale come ideale da difendere
Un po’ di chiarezza
Che la situazione in cui versa attualmente il mondo sia fonte di angoscia per molti e non induca in generale all’ottimismo è un dato piuttosto incontrovertibile. A pesare sono innanzitutto i fatti. Nel contesto dei numerosi conflitti armati in essere, sia noti che ignorati, e di altre “minacce alla pace” in senso lato, vengono ripetutamente commesse violazioni gravi e sistematiche sia del diritto internazionale umanitario che del diritto internazionale dei diritti umani. E la giustizia penale internazionale, che ha compiuto progressi notevolissimi negli Anni Novanta, va incontro a gravi ostacoli. Al di là dei fatti, però, a preoccupare oggi è la tendenza di alcuni leader mondiali a mettere in discussione, a delegittimare e svuotare del loro contenuto le norme fondamentali che quei fatti inaccettabili vietano.
Di fronte a questo stato di cose, vi è chi sostiene che “il diritto internazionale non esiste più”, che “le Nazioni Unite sono inutili” o, ancora, che “il multilateralismo è in una crisi irreversibile”. Se il sentimento di sconforto che questa narrazione genera è comprensibile, ciò non esonera dal dovere di provare a fare chiarezza sui termini reali delle principali questioni che ci affliggono: allo scopo di non nutrire aspettative sbagliate, fraintendendo natura e ruolo del diritto internazionale e delle organizzazioni internazionali; al fine di non trascurare o sottovalutare sviluppi importanti avvenuti in un arco di tempo più ampio di quello che siamo abituati a prendere in considerazione (e che tendono a restare fuori dalla narrazione corrente); last but not least, in vista della promozione di forme di resistenza, di difesa strenua di quella parte del sistema giuridico internazionale che esprime valori a nostro avviso essenziali, che meritano di essere custoditi.
Quale diritto internazionale?
Proviamo allora a domandarci innanzitutto se sia corretto decretare, come molti un po’ sbrigativamente fanno, la fine del diritto internazionale. Per dare una risposta occorre, a costo di essere un po’ didascalici, precisare quale sia l’oggetto del contendere.
Secondo la ricostruzione più comune, il diritto internazionale nasce attorno alla metà del Seicento per regolare i rapporti fra nuovi enti politici sorti dal disfacimento dell’Europa medievale. Ciascuno di quegli enti – antenati degli attuali stati europei – esercita su un territorio un potere esclusivo e non riconosce (più) alcuna autorità al di sopra di sé. A nascere, in altre parole, è una collettività (qualcuno preferisce convivenza, altri parlano di società) di enti sovrani, non organizzati in un sistema accentrato e gerarchico. A tenerla insieme è soprattutto l’equilibrio di potere. Quando questo viene meno, e fino a quando non venga ristabilito … c’è la guerra.
La struttura (decentrata, orizzontale, per qualcuno “anarchica”) della comunità internazionale determina il modo di essere del suo sistema giuridico (che gradualmente si forma … perché nessuna società può fare a meno di regole). Questo non viene imposto dall’alto, perché sopra gli stati, essendo questi sovrani, non vi è nulla. Il diritto è quello che gli stessi stati scelgono di darsi. Oltre a non esistere un potere legislativo accentrato, del resto, non esistono neppure un potere giudiziario e un potere esecutivo accentrati. L’assenza di un’autorità sovra-ordinata ai membri della società internazionale, e il decentramento delle principali funzioni dell’ordinamento, sono elementi che in linea di massima ancora caratterizzano il mondo di oggi; anche se la coesistenza (e la crescente interdipendenza e la necessità di collaborare) fanno sì che sia nell’interesse di tutti avere delle regole e anche se oggi il diritto internazionale, dal punto di vista dei contenuti, si è notevolmente arricchito.
Ciò premesso – e ci scusiamo per la lunghezza di questa spiegazione – ha senso parlare di morte o fine del diritto internazionale? Pensiamo di no. Non solo perché, come si è detto, ogni comunità ha bisogno di regole ma anche perché la comunità internazionale di oggi assomiglia per certi aspetti fondamentali (anche se non per altri) a quella che al diritto internazionale ha dato origine. È tuttora formata da enti dotati di sovranità ed è tuttora priva di una vera e propria struttura istituzionale. E il diritto internazionale, con le sue modalità di produzione, accertamento e attuazione del diritto, assai diverse da quelle degli ordinamenti interni, riflette appieno le caratteristiche strutturali della comunità di cui costituisce l’elemento organizzativo necessario.
Se, dunque, non è vero che il diritto internazionale sia morto, qual è il problema con cui dobbiamo confrontarci? A cosa si allude, in realtà, quando si ripetono le narrazioni di cui abbiamo detto in apertura? Il problema che si pone oggi è quello della sopravvivenza e dell’integrità (oltre che dell’effettività) di alcune regole, o meglio di certi settori del diritto internazionale, nati all’indomani della seconda guerra mondiale, che esprimono quei valori che sono oggi, oltre che traditi nei fatti, bersaglio di attacchi ideologici. Il problema, in altri termini, è un problema di violazioni ma anche, al tempo stesso, di delegittimazione: non del sistema giuridico internazionale tout court (che continuerà a esistere) ma di quella parte del diritto internazionale a cui teniamo (molti di noi tengono) di più, e che siamo abituati a conoscere e ad apprezzare.
Il diritto internazionale da difendere: pace, diritti e giustizia
Di quali ambiti di disciplina internazionale, di quali valori ad essi sottesi, stiamo parlando? Innanzitutto, delle norme per il mantenimento della pace, di quel progetto visionario di “pace attraverso il diritto” accolto nella Carta delle Nazioni Unite e comprensivo del divieto di ricorso unilaterale alla forza, da un lato, e dell’attribuzione alle stesse Nazioni Unite di poteri e mezzi adeguati per imporre quel divieto, dall’altro. Un’idea meravigliosa, che avrebbe rivoluzionato il sistema delle relazioni internazionali … se solo fosse stata attuata. Non potendoci dilungare, ci limitiamo a ricordare come quel progetto non sia stato realizzato, fra le altre cose, perché già alla fine degli Anni Quaranta gli stati avevano scelto di non dotare le Nazioni Unite di un proprio esercito, come invece previsto nella Carta, e che queste, da allora, hanno dovuto perseguire un obiettivo ambizioso con pochissimi mezzi per realizzarlo (e la collaborazione soltanto sporadica e selettiva degli stati membri). Non pare proprio che le forze attualmente dominanti sulla scena internazionale siano disposte a mettere le Nazioni Unite e l’approccio multilaterale che incarnano al centro della scena. Si rema, semmai, nella direzione opposta.
Agli anni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale risale, però, anche un’altra novità, che non è esagerato definire rivoluzionaria. Per la prima volta nella storia vengono introdotte regole internazionali che limitano l’esercizio del potere interno degli stati. Il diritto internazionale non ha più, da quel momento, il solo fine di disciplinare i rapporti di coesistenza/convivenza tra stati (le relazioni internazionali, in tempo di pace e in tempo di guerra) ma anche il rapporto fra autorità di governo e persone sottoposte a quelle autorità (i diritti umani); il diritto dei conflitti armati interni (le guerre civili, non solo quelle internazionali); la giustizia penale (a partire dall’idea che certi crimini sono lesivi di valori universali e che è nell’interesse della comunità internazionale non lasciarli impuniti).
Questo “nuovo” diritto internazionale trova fondamento nella Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948, approvando la quale gli stati hanno accettato, oltre ai limiti internazionali all’esercizio del loro potere interno, anche di dover rendere conto, di essere accountable, alla comunità internazionale; si fonda sulle quattro Convenzioni di Ginevra sul diritto dei conflitti armati del 1949, ciascuna dedicata a una diversa categoria di “persona protetta” (che codificano lo ius in bello, applicabile a tutte le parti in conflitto, anche a chi abbia fatto ricorso alla forza armata in legittima difesa); si fonda, infine, sulla Nuremberg legacy, l’eredità di Norimberga, e sull’idea che l’accertamento e la punizione di certi crimini – che poi altro non sono che violazioni gravi dei diritti umani e del diritto internazionale umanitario, considerate dal punto di vista della responsabilità penale individuale – non debbano essere di competenza del solo stato sul cui territorio sono stati commessi ma possano essere, quando quest’ultimo non offre risposte adeguate, affidate alle corti di altri stati (giurisdizione universale) o a tribunali penali internazionali.
Una sfida per i prossimi anni
Il “nuovo” diritto internazionale è dunque frutto di conquiste relativamente recenti. Prima non c’era: meno di un secolo fa, il ricorso alla forza armata era soggetto a pochi limiti; il diritto dei conflitti armati non si applicava alle guerre civili (neppure alle guerre coloniali, combattute contro popoli a cui non si riconosceva alcuno status) e i diritti umani erano un “affare interno”, non essendo internazionalmente riconosciuti. Oggi quel diritto c’è, e la sua stessa esistenza è ovviamente di un’importanza vitale.
Ciò non significa, ovviamente, che nel periodo che ci separa dalla fine della seconda guerra mondiale, non siano mancati i conflitti armati, le violazioni dei diritti umani e del diritto internazionale umanitario in gran numero, tantomeno l’impunità per quelle violazioni. La percezione che vi sia stato un periodo in cui tutto è filato liscio, per così dire, e che solo oggi il diritto internazionale è violato è frutto, almeno in parte, della nostra memoria corta e di una prospettiva ristretta (che ci porta ad accorgerci di guerre e di crimini internazionali solo se avvengono vicino a noi o in contesti rilevanti per l’Europa o per l’Occidente).
Ora, però, c’è, in effetti, qualcosa di nuovo. C’è un problema ulteriore che spiega i sentimenti di angoscia e di sconforto diffusi. Il problema odierno non è (o non è più soltanto) l’esistenza di conflitti, la violazione di principi di umanità, il rifiuto di una giustizia uguale per tutti. È, invece, il disprezzo ostentato da parte dei soggetti più influenti della comunità internazionale per quelle norme di civiltà che avevamo, forse in modo poco lungimirante, dato per scontate. È il rischio di fare un passo indietro sul piano non tanto e non solo delle condotte ma delle regole che quelle condotte qualificano come illecite. È a questa tendenza che bisogna reagire in tutti i modi possibili. Si tratta allora di impegnarsi, di battersi affinché i valori incarnati dal nuovo diritto internazionale siano tenuti in vita. Non il diritto internazionale in quanto tale (che continuerà sicuramente ad esistere), ma la pace attraverso il diritto, i diritti umani e il diritto umanitario, la giustizia internazionale. Vincere la battaglia culturale e politica per difendere le norme che esprimono questi valori è la sfida più importante dei prossimi anni.