Il diritto internazionale dei diritti umani e il ruolo strategico delle organizzazioni non governative

Patrizio Gonnella
Presidente dell’associazione Antigone. Insegna filosofia e sociologia del diritto all’Università Roma Tre.

I diritti umani vanno letti e compresi all'interno di una dimensione internazionale, affidandosi a un discorso storico, politico e giuridico. In questo quadro, alle Organizzazioni non Governative è stato legittimamente riconosciuto un ruolo dal diritto internazionale. La loro funzione non è parallela ed esogena, bensì interna al sistema del diritto internazionale dei diritti umani.

Dobbiamo fare un salto indietro nel tempo per tornare alle origini del diritto internazionale dei diritti umani: la Seconda guerra mondiale e l'Olocausto, infatti, costituirono il punto di partenza del nuovo diritto internazionale. Se non ci fossero stati i campi di concentramento e l’Olocausto, probabilmente il diritto internazionale dei diritti umani non sarebbe stato così codificato: ad Auschwitz è nata la necessità di costruire un nuovo sistema del diritto internazionale centrato sulla dignità umana.

La dignità umana fu codificata nel preambolo della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 1948 come il fondamento di tutti i diritti civili, sociali, politici, culturali, economici. Nel clima di quegli anni non venne ritenuto necessario definire la parola ‘dignità’ e delimitare i suoi contorni. A tutti era chiaro cosa si intendesse per dignità umana violata. Auschwitz, in questo senso, è il luogo dove simbolicamente è morta l'umanità ed è rinata la dignità.

Nel preambolo della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo del 1948, è evocata la definizione kantiana di dignità, che vuole sempre l’uomo quale fine e mai come mezzo. A ben vedere, in tutte le premesse degli atti internazionali sui diritti umani, a partire dal 1948, è presente un riferimento alla nozione di dignità. Un riferimento che ha avuto un impatto giuridico significativo, grazie all’attivismo delle Corti supreme.

Alla fine della Seconda Guerra Mondiale il mondo si divise in due blocchi di potere: un blocco orientale, che aveva la sua testa nell'Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche e che faceva capo militarmente al Patto di Varsavia, e un blocco occidentale, rappresentato dall’alleanza della Nato. Nonostante le due strategie politiche e militari fossero molto differenti (l'Occidente liberale e l'est europeo comunista), si riuscì miracolosamente a dar vita alle Nazioni Unite e alla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, che è una sorta di sintesi fra le istanze che arrivavano dal mondo liberale-occidentale e quelle della tradizione comunista del socialismo reale.

All’interno della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, in effetti, da un lato vi è un esplicito riferimento ai diritti di libertà, quindi ai diritti civili e ai diritti politici; dall'altro lato, però, c'è anche una enunciazione dei diritti sociali e dei diritti economici. La forza di questo documento sta proprio nel non lasciare scoperte le aree dei diritti civili, sociali, culturali, politici ed economici, che sono figlie di spinte geopolitiche contrapposte e conservano un loro pari spazio all’interno della medesima dichiarazione. Una Dichiarazione nel diritto internazionale non ha un'efficacia normativa vincolante per gli Stati, ma ha una valenza di mera persuasione politica. A ben vedere, si muove in quella sottile area grigia sussistente fra la diplomazia e l'obbligatorietà normativa. D’altronde, è impensabile che gli Stati acconsentano a cessioni della propria sovranità fino a farsi giudicare e sanzionare ogni qualvolta violino uno qualunque dei diritti codificati sul piano internazionale. A ottant'anni dalla fine della seconda guerra mondiale quella Dichiarazione ha ancora un valore politico e morale forte e alto. Ambisce tutt'oggi a spostare in avanti le legislazioni degli Stati e la loro pratica politica sul terreno dei diritti umani.

La spinta partita nel 1948 verso il multilateralismo e la valorizzazione dei diritti umani fu suggellata nel 1966, anno in cui le Nazioni Unite posero alla firma degli Stati due Patti: uno sui diritti economici e sociali e l'altro sui diritti civili, politici e culturali. In quegli anni di forte polarizzazione si decise di redigere due Trattati diversi, perché da un lato, vi era il mondo facente capo agli Stati Uniti d'America, liberale e capitalista, per il quale era inconcepibile mettere sullo stesso piano il diritto alla casa o il diritto al lavoro con l'habeas corpus o con quei diritti comunque legati alla tradizione liberal-democratica; dall’altro lato, vi era invece il mondo comunista facente capo all’Unione Sovietica, che non voleva sentir parlare di diritti di libertà e concentrava le proprie energie politiche sui diritti sociali ed economici. La parola Patto nel diritto internazionale rimanda a un terreno negoziale e assume un valore giuridico diverso rispetto a una dichiarazione. I due Patti del 1966 furono messi alla firma degli Stati. Con questi Patti si passò, dunque, da un regime di soft law ad uno di quasi hard law: nonostante gli Stati cercassero ancora di preservare la propria sovranità, il diritto internazionale iniziò a entrare negli ordinamenti giuridici interni. In particolare, rappresentò una grande novità l’istituzione di Comitati atti a verificare il rispetto di quei diritti all'interno dei singoli Stati. Nonostante quelli fossero anni caratterizzati dal forte desiderio degli Stati di non subire un’eccessiva ingerenza nel proprio diritto interno, iniziarono ad aprirsi piccoli interstizi in cui potevano entrare le Organizzazioni non Governative per rendere il diritto internazionale sempre più a misura di persona. E le Ong avviarono la fase di incuneamento interstiziale, come la definì Antonio Papisca, indimenticato studioso dei diritti umani.

Il multilateralismo è la via necessaria per ridurre gli spazi di sovranità nazionale. I diritti umani e la dignità costituiscono il confine insuperabile dal potere sovrano dello Stato. La sovranità è un problema, scriveva Hans Kelsen. La sovranità assoluta è belligena, come hanno scritto nel tempo Immanuel Kant, Sigmund Freud, Albert Einstein e Altiero Spinelli.

I due Patti definirono una nuova relazione tra il singolo Stato e la comunità internazionale attraverso l’obbligo a carico dei Governi di redigere rapporti periodici (nasce così la fase della cosiddetta “rapportologia”) sullo stato dei diritti nei loro Paesi. In particolare, i comitati avrebbero dovuto interrogare periodicamente gli Stati circa il rispetto dei diritti umani al proprio interno e, a loro volta, redigere un loro rapporto periodico. Interessante è notare come nella predisposizione dei rapporti e delle conclusioni, i Comitati Onu si sono affidati anche ai rapporti paralleli presentati dalle Organizzazioni non Governative, le quali hanno avuto sempre uno spazio per esprimere le proprie opinioni. Le Ong, dunque, si sono qualificate nel tempo e nello spazio universale quale contropotere rispetto agli Stati all'interno del diritto internazionale dei diritti umani.

Affinché il sistema funzioni, però, è necessaria la ricorrenza di due circostanze. In primo luogo, vi deve essere una comunità internazionale che accordi uno stigma di riprovevolezza ai responsabili delle violazioni dei diritti umani (ad esempio, quanto meno, attraverso una condanna pubblica). Uno stigma che dovrebbe pesare nelle relazioni politiche ed economiche, nonché nel dibattito internazionale. In secondo luogo, lo stigma di cui sopra dovrebbe pesare anche nella distribuzione degli incarichi internazionali. Lo Stato reo di aver violato i diritti umani dovrebbe perdere peso nella rappresentanza in seno agli organismi internazionali.

Spetta alle Organizzazioni non governative essere parte di questo processo costituente, diretto a delegittimare il potere sovrano delle singole nazioni. Questa è l'eredità del secolo breve.

Durante gli anni '70 e '80 del '900, il sistema internazionale dei diritti umani si fortificò attraverso la scrittura di Convenzioni su temi specifici, quali la Convenzione contro la discriminazione nei confronti della donna, la Convenzione sui diritti dell'infanzia, la Convenzione contro la tortura e i trattamenti inumani e degradanti.

Queste Convenzioni sono entrate a far parte del nostro diritto interno con pieno e alto valore giuridico. In particolare, in seguito alla riforma del Titolo V della Costituzione avvenuta nel 2001, in Italia è stato sancito che il diritto internazionale dovesse entrare nell'ordinamento giuridico con una forza giuridica maggiore rispetto al diritto interno. Quest'ultimo non deve mai confliggere con il diritto internazionale, e dunque anche con il diritto internazionale dei diritti umani.

La prima necessità avvertita da queste Convenzioni sui diritti umani è la chiarezza definitoria, in modo che si possa creare una certa omogeneità fra gli Stati nel trattare grandi questioni quali la discriminazione di genere, il genocidio, la tortura, la protezione dei diritti dell’infanzia.

Le Convenzioni restano, però, nella dimensione pre-giurisdizionale della “rapportologia”. I comitati Onu possono limitarsi a produrre osservazioni diplomatiche che non devono mai apparire invasive rispetto alla sovranità dello Stato. Non vi è stato il passaggio dalla diplomazia alla piena giustiziabilità dei diritti umani. Gli Stati sovrani lo hanno impedito.

Contemporaneamente al proliferare di Convenzioni internazionali su temi specifici, nell'ambito delle Nazioni Unite si sono strutturati anche gruppi di lavoro di esperti con una funzione di monitoraggio, di supervisione e di raccomandazione politica nel campo dei diritti umani. Ve ne sono, ad esempio, sulla detenzione arbitraria, sul razzismo, sui diritti dei discendenti afro-americani. In questo contesto operano anche i rapporteur speciali, che devono raccogliere la massa delle informazioni circa ciò che accade su quel determinato tema di cui sono incaricati. Vi sono, ad esempio, rapporteur speciali sulla lotta alle discriminazioni di genere e sulla tortura. I rapporteur speciali non hanno un potere particolare, ma costituiscono uno sguardo fisso delle Nazioni Unite su un particolare tema, scelto per la sua delicatezza.

Il quadro del sistema internazionale dei diritti umani ha però una dimensione debole. Come detto è mancato il passaggio ulteriore che avrebbe dovuto consistere nel rendere giustiziabili i diritti umani, affinché non rimanessero sul piano dell’enunciazione e della pressione diplomatica. La fine della guerra fredda sembrava spingesse verso un più forte multilateralismo. Due documenti hanno illuso che si potesse costruire, alla fine del ‘900, un nuovo ordine mondiale umanocentrico.

In primo luogo, l'Agenda della Pace, scritta e presentata in Assemblea, nel 1992, dall'allora segretario generale delle Nazioni Unite, l'egiziano Boutros-Ghali, il quale ebbe il sentore dell’arrivo di tragedie immani: piccole e grandi guerre, piccoli e grandi genocidi. Finita la guerra fredda scoppiarono infatti conflitti nella ex-Jugoslavia, in Ruanda e in Burundi. L’ambizione di quel documento guardava alla creazione di una polizia internazionale che dovesse progressivamente sovrapporsi agli eserciti nazionali. Per Boutros Ghali pace e diritti umani non erano mai scindibili: la pace, come ci hanno insegnato due grandi filosofi come Immanuel Kant e il contemporaneo Luigi Ferrajoli, non è semplicemente assenza di guerra, ma costruzione di politiche attive per la democrazia e per i diritti umani.

In secondo luogo, fu di fondamentale importanza la Conferenza mondiale delle Nazioni Unite sui diritti umani tenutasi nel 1993 a Vienna tra il 14 e il 25 giugno. Alla conferenza parteciparono i rappresentanti di centosettantuno Stati, che votarono all’unanimità un'unica dichiarazione circa un programma di azione per la promozione e la tutela dei diritti umani. Per la prima volta, vi fu un coinvolgimento senza precedenti di esperti a livello globale: parteciparono ben settemila persone, di cui circa ottocento in qualità di rappresentanti delle Organizzazioni non Governative. In quel programma si posero le basi di ciò che avrebbe dovuto essere il sistema dei diritti umani nel mondo nuovo, il quale avrebbe dovuto fondarsi sull'interdipendenza e l’indivisibilità dei diritti umani.

Grazie all'attivismo delle Ong germinò ciò che potremmo ritenere fosse il punto d'arrivo più alto del diritto internazionale dei diritti umani: la firma da parte degli Stati dello Statuto istitutivo della Corte penale internazionale, avvenuta a Roma nel 1998. In questo processo, il ruolo delle Organizzazioni non Governative è stato decisivo. Senza la loro pressione, a partire da Amnesty International, non saremmo mai arrivati all’istituzione della Corte penale internazionale, davanti alla quale sono ora finalmente giustiziabili le più gravi violazioni dei diritti umani (tortura, genocidio, crimini di guerra). Ciò detto, bisogna sottolineare come la Corte soffra tutt’oggi di tante e gravi limitazioni. Il Consiglio di Sicurezza, in particolare, si è preservato un ruolo importante per evitare che sia possibile giudicare chiunque, dovunque. Nonostante questi limiti, è stata però aperta una breccia. Questa politica della giustiziabilità dei diritti umani era già stata avviata attraverso l’istituzione di Corti ad hoc sui crimini di guerra nell'ex Jugoslavia e in Ruanda, che soffrivano però il limite strutturale di essere legate ad un determinato contesto politico e territoriale. In altri termini, queste corti nascevano successivamente al verificarsi dei fatti. L’istituzione della Corte Penale Internazionale, invece, ha dimostrato per la prima volta di tenere in debita considerazione il principio del giudice naturale precostituito per legge.

Nel momento in cui il sistema internazionale dei diritti umani è giunto al suo apice, ha iniziato però a perdere potenza. Questo nuovo protagonismo del diritto internazionale, infatti, è stato avvertito negativamente dagli Stati. In particolare, Stati Uniti, Cina, Israele e Russia si sono qualificati come i grandi nemici della Corte Penale internazionale e del diritto internazionale dei diritti umani. Tutto ciò ha comportato un’operatività limitata della Corte, che non ha avuto quella forza espansiva auspicata da più parti. Il multilateralismo è sotto attacco nell'era dei sovranismi, dei populismi.

In questo contesto di sfiducia nei confronti del multilateralismo, un ruolo importante è ancora  giocato  dalle Organizzazioni non Governative, con la loro capacità di essere soggetti liberi nel discorso pubblico, per restituire dignità al multilateralismo e per contrastare i rischi del sovranismo, vero rischio per chi crede nel pieno riconoscimento di tutti i diritti umani, nessuno escluso. Il multilateralismo ne costituisce l'antidoto. Manca, purtroppo, oggi, un pensiero culturale e politico forte capace di contrapporsi ai nuovi nazionalismi. Le più belle parole contro la sovranità sono state scritte da Papa Francesco nell'Enciclica Fratelli Tutti, vero manifesto di una rivoluzione umanocentrica.  Il futuro dei diritti umani è nella sua lotta incessante con il potere sovrano degli Stati. Vedremo cosa dirà il pendolo della storia.