Diritti umani: la crisi investe anche l'Europa

di 
Vladimiro Zagrebelsky*

La rilevanza dei diritti e delle libertà fondamentali sul piano globale si fonda sull’affermata loro natura universale. La pluralità delle culture e dei regimi politici anche nel rapporto tra autorità pubbliche e persone individuali conviverebbe con un nocciolo duro universalmente valido. È questa l’idea di fondo sottostante la Dichiarazione universale dei diritti umani, approvata dalla Assemblea generale delle Nazioni Unite a Parigi il 10 dicembre 1948 e in genere tutti i documenti che a partire dal Dopoguerra hanno costruito il sistema dei diritti umani come responsabilità della Comunità internazionale e limite al “dominio riservato” degli Stati. La Dichiarazione approvata dall’Assemblea generale afferma che gli Stati membri si sono impegnati a perseguire il rispetto e l'osservanza universale dei diritti umani e delle libertà fondamentali, aggiungendo che una concezione comune di questi diritti e libertà è della massima importanza. Universalità dei diritti e delle libertà dichiarati con il voto della Assemblea generale, non solo, ma anche una concezione comune di essi. È da notare che, fin dal Preambolo, la Dichiarazione indica che si tratta di mettere in opera la ricerca progressiva dell’obiettivo comune. Non tutto subito, ma un lavoro da compiere in vista del risultato condiviso; un ideale comune da raggiungere per tutti i popoli e tutte le nazioni. Non era una posizione, che non incontrasse dissensi. Sul piano culturale era notevole la posizione dell’American Anthropological Association, che nel corso dei lavori preparatori della Dichiarazione, aveva espresso una posizione critica in ordine alla universalità dei diritti che si intendeva proclamare, rilevando l’appartenenza dei valori che vi erano espressi alla cultura dell’Occidente europeo e americano. Sul piano politico poi, pur essendosi scelta la via della dichiarazione di natura politica e non del trattato legalmente vincolante, emerse l’orientamento dell’Unione Sovietica e degli Stati che già in quel momento erano sotto la sua influenza, in contrasto a quello degli Stati occidentali: i primi tendevano a dare priorità ai diritti sociali, i secondi ai diritti civili e politici. In ogni caso, ora come allora, la posizione dell’individuo (e della donna in particolare) rispetto allo Stato, alla famiglia e alle comunità, oltre che il contenuto di taluni diritti elencati nella Dichiarazione, sono oggetto di contestazione in grandi aree del mondo islamico, in Asia, in Africa. Alla valorizzazione della posizione della persona individuale si contrappone un diverso ordine di idee e di valori, che si fonda invece sulla collettività. Contrasti poi esistono persino nel mondo occidentale; basta pensare al diritto fondamentale alla vita e alla sua incompatibilità con la pena di morte.      

L’universalità dei diritti e delle libertà fondamentali e la comune concezione del loro contenuto non solo sono lungi dall’essere realizzate, ma è stata smentita o ridimensionata dall’immediata approvazione di Carte dei diritti a portata regionale. Si tratta della Convenzione europea dei diritti umani (1950) e della Convenzione Interamericana dei diritti umani (1969), cui progressivamente aderirono nella prima gli Stati europei e nella seconda quelli dell’America centrale e meridionale (non gli Stati Uniti, né il Canada). Interessa notare che gli Stati del Consiglio d’Europa che inizialmente sottoscrissero la Convenzione europea (Belgio, Danimarca, Francia, Irlanda, Italia, Lussemburgo, Norvegia, Paesi Bassi, Svezia e Regno Unito e poco dopo Turchia e Germania) si dichiararono «mossi dallo stesso spirito e in possesso di un patrimonio comune di ideali e di tradizioni politiche, di rispetto della libertà e della preminenza del diritto», così dichiarando una specificità dell’area europea. Si trattava di una aspirazione, un progetto, un risultato da raggiungere, non uno stato di fatto. Fuori dall’Europa, in Africa e nel mondo islamico sono state approvate Carte dei diritti di diverso contenuto. E in Asia, pur priva di sistemi sopranazionali di protezione dei diritti umani, sono emerse dichiarazioni di “valori asiatici”.

La universalità dei diritti fondamentali è dunque smentita dalla realtà di diversità anche profonde tra le culture che sono presenti nelle diverse aree del mondo. E la stessa intenzione di operare per progressivamente raggiungere un certo grado di armonizzazione è messa in discussione. Persino in Europa si allontana l’intenzione di favorire una sempre maggiore unità degli Stati sul piano della democrazia e dei diritti. Sono note le posizioni dei governi Polonia e Ungheria di contestazione di numerosi diritti proclamati dalla Convenzione europea e delle stesse esigenze proprie dello Stato di diritto. Ancora non è conclusa la vicenda che riguarda l’adesione alla Nato di Svezia e Finlandia, tenuta in ostaggio dal governo turco che, per consentirla, pretende la consegna di un certo numero di curdi che si sono rifugiati in quei paesi. I vincoli che derivano dalla Convenzione europea dei diritti umani impediranno probabilmente a quei governi e alle relative magistrature di provvedere nel senso richiesto dalla Turchia, ma il solo fatto che si sia accettato di discuterne per poter procedere all’accesso alla Nato è segno che a livello statale si sia disposti a trattare sui diritti e libertà individuali che pure, sempre si proclamano universali e indisponibili.

Da tempo, specialmente dopo l’adesione negli anni ’90 della Russia e dei Paesi che venivano liberandosi dalla soggezione al sistema sovietico, vi sono conflitti che contrappongono anche militarmente alcuni Stati membri (Cipro e Turchia, Turchia e Grecia, Georgia e Russia, Armenia e Turchia e Azerbaigian). Si tratta di una situazione che ha raggiunto il massimo di gravità con la guerra scatenata dalla Russia con l’invasione della Ucraina. Essa, unitamente alla serie di sentenze della Corte europea dei diritti umani che hanno constato la violazione da parte della Russia della Convenzione e il rifiuto di dare esecuzione alle sentenze, ha portato ad un fatto gravissimo, anche se obbligato: l’espulsione della Russia dal sistema di protezione dei diritti umani in Europa. Con l’espulsione della Russia, si deve constatare il fallimento del progetto europeo di progressiva armonizzazione dei sistemi di riconoscimento e protezione dei diritti e delle libertà fondamentali in Europa. Questa era l’intenzione (la scommessa) che muoveva il Consiglio d’Europa fin dal 1950 e successivamente nell’accogliere i numerosi Paesi dell’Est europeo, portatori di storie e culture politiche diverse e difficilmente compatibili con i presupposti del progetto europeo. Non si tratta solo della guerra e della contrapposizione del governo russo nei confronti della Corte europea dei diritti umani, ma anche di certe motivazioni enunciate da dirigenti governativi ed anche dalla Chiesa ortodossa russa di sfida agli Stati del Consiglio d’Europa (e all’Occidente in generale) sul piano dei valori sottostanti al riconoscimento dei diritti di libertà, di cui -per tornare all’inizio di questo scritto- si era proclamato il valore universale e che l’Europa, con la Convenzione dei diritti umani, aveva rafforzato facendone un fondamentale tratto identitario.

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Magistrato, giurista e accademico italiano, giudice della Corte europea dei diritti dell'uomo dal 2001 al 2010, membro  del Consiglio Scientifico del CeSPI.