*Articolo di Lamberto Zannier e Domenica De Fazio

La prevenzione dei conflitti attraverso l’integrazione delle società

La fine della Guerra Fredda aveva creato aspettative di una nuova fase nelle relazioni internazionali, improntata a condizioni per un dialogo più aperto e prospettive di stabilità e pace. I Capi di Stato e di Governo della CSCE (oggi OSCE), nell’adottare la Carta di Parigi per una Nuova Europa nel Novembre 1990, annunciavano solennemente: “L’era della contrapposizione e della divisione dell’Europa è terminata. Dichiariamo che per l’avvenire le nostre relazioni saranno basate sul rispetto e sulla cooperazione.”

I conflitti nei Balcani occidentali, nello spazio ex-sovietico e poi in Medio Oriente, Afghanistan, Africa e l’avvento di nuove minacce transnazionali, a cominciare dall’estremismo violento e dal terrorismo, hanno ormai dimostrato che si trattava di illusioni fallaci.

A trent’anni di distanza dalla caduta del muro di Berlino, il quadro complessivo delle relazioni strategiche internazionali è desolante. Stiamo vivendo un ritorno rampante della geopolitica, costellata da acute crisi nei rapporti tra Stati, assistiamo al ritorno del nazionalismo e all’avvento di leaders controversi e populisti, fatichiamo a comprendere e ancor più a gestire sfide globali, quali la crisi demografica, le migrazioni, i cambiamenti climatici.

Il multilateralismo, che sarebbe ancora più essenziale oggi rispetto al passato per sviluppare strategie articolate necessarie ad affrontare queste complesse sfide, sta attraversando una crisi profonda. Strumenti che avevano assicurato stabilità nella fase che consideravamo pericolosa della Guerra Fredda stanno cadendo a pezzi proprio in una fase in cui avremmo bisogno di aggiornarli e rinforzarne l’efficacia.

I classici conflitti interstatali, rispetto ai quali erano state messe a punto strategie di diplomazia preventiva e di gestione attraverso varie fasi, al centro delle quali vi era lo spiegamento di forze di pace sul terreno, sono quasi del tutto scomparsi.

Al loro posto assistiamo sempre più spesso a situazioni di crisi dai contorni confusi, con un ruolo spesso limitato degli eserciti regolari e il coinvolgimento di gruppi armati irregolari sovente sostenuti da attori esterni che in questo modo influenzano il contesto geopolitico evitando il loro coinvolgimento diretto. Alla base di questo tipo di conflitti sono preesistenti divisioni nelle società dei Paesi coinvolti, divisioni che possono essere di varia matrice: politica, etnica, religiosa o altra.

Guardiamo ai Balcani, ad esempio, dove la comunità internazionale ha investito massicciamente per fermare le ostilità e ricreare uno spazio di pace e stabilità.  Le intese cui si è pervenuti (Dayton per Bosnia-Erzegovina, Ohrid per Macedonia del Nord) hanno invero ottenuto il risultato di sospendere le ostilità, ma hanno anche creato separazioni strutturali tra le fazioni in lotta accentuando le divisioni tra i vari gruppi etnici.

A due decenni di distanza poco è mutato e le divisioni sociali si perpetuano, sotto l’impatto di interessi politici interni ma anche di quelli dei Paesi limitrofi e di altri attori esterni.

In Bosnia-Erzegovina, ad esempio, l’auspicata riforma della Costituzione non si è mai realizzata e il Paese è tuttora disfunzionale, con una presidenza collettiva e vari livelli di governo locale che bloccano ogni iniziativa per la semplificazione del quadro istituzionale e lo snellimento delle procedure ammnistrative. Ancora oggi i ragazzi studiano separatamente nella maggior parte delle scuole, divisi su base etnica, con curricula diversi ove vengono proposte interpretazioni differenti della storia e dei fatti più recenti, alimentando così pregiudizi ed intolleranza e perpetuando divisioni nella società. Questa segregazione, aggravata dallo scarso sviluppo economico, crea tutte le condizioni per ulteriori futuri conflitti e va dunque combattuta.

Anche in Kossovo, al di là dei noti problemi politici, le comunità serba ed albanese sono più distanti e contrapposte che mai e la comunità internazionale – l’Unione Europea in primis – non è riuscita a presentare a Belgrado e Pristina incentivi sufficientemente forti per promuovere il superamento delle divergenze.

Il conflitto nel bacino del Don, in Ucraina, è il più recente esempio di una grave crisi all’apparenza ibrida ove a fattori locali si sono sovrapposte forti influenze esterne.

Il coinvolgimento in situazioni così complesse richiede creatività e soluzioni ad hoc da parte della comunità internazionale. Nel caso dell’Ucraina, l’OSCE si è impegnata sul terreno con un’operazione di osservatori civili disarmati che operano in gran parte nell’immediata vicinanza delle zone interessate dai combattimenti.

Un dettaglio interessante è il fatto che, per il reclutamento degli osservatori, l’organizzazione ha impiegato civili con solida esperienza in campo militare, perchè operazioni condotte nell’immediata vicinanza del teatro di combattimento, in presenza di campi minati, attraverso una quotidiana interazione con miliziani separatisti e forze armate regolari o meno sul fronte tenuto da Kyiv, richiedono grande esperienza e non possono essere affidate a mani inesperte.

Reperire questo tipo di profili non è facile e la positiva esperienza di questa missione, che affianca funzioni di assistenza umanitaria a quelle più centrali di monitoraggio degli eventi sul piano militare e di valutazione delle violazioni degli accordi di Minsk, lascia prevedere che vi sarà in futuro maggiore richiesta di profili di questo tipo.

A tal riguardo, si potrebbe pensare di utilizzare la riserva selezionata delle nostre Forze Armate come serbatoio di possibili candidati da presentare per queste missioni (a tutt’oggi, le candidature vengono proposte dalle persone interessate su base individuale, attraverso il Ministero degli Esteri che procede a un loro primo vaglio), individuando, come primo passo, le posizioni di maggior interesse nazionale e presentando, in un secondo tempo, quei candidati che offrano un profilo in linea con i requisiti per tali posizioni.

Va anche notato che nei dibattiti sul futuro del Donbass, nella prospettiva dell’attuazione degli accordi di Minsk, ha avuto grande rilievo la riflessione sul ruolo della polizia, con ipotesi di coinvolgimento di una forza di polizia internazionale.

In effetti, il crescente ruolo delle forze di polizia – che ha anche portato alla creazione di dipartimenti dedicati a questo settore in seno all’ONU, ma anche all’interno di altre organizzazioni internazionali, come l’OSCE o l’Unione Europea – sta assumendo crescente rilievo nelle più recenti missioni. Il limite resta quello della limitata disponibilità e del costo di queste componenti.

Particolarmente apprezzato, in tutti i teatri in cui operano, è il ruolo delle nostre forze dell’ordine e in particolare dei Carabinieri, probabilmente il modello ideale per ogni operazione di pace, considerata anche la loro preparazione ed immediata contiguità alle unità militari impegnate nelle missioni di pace nonché la loro idoneità ad operare in contesti non privi di ostilità.

Occorre insistere maggiormente su concetti di polizia multi-etnica per creare più ownership e maggiore fiducia nell’operato delle forze dell’ordine in tutti i settori della società, che si dovranno sentire in essa rappresentati.

L’Ufficio dell’Alto Commissario dell’OSCE ha formulato specifiche raccomandazioni al riguardo proprio in chiave di prevenzione dei conflitti, ponendo l’accento sull’ importanza della diversità nella composizione delle forze di polizia e del loro addestramento specifico per operazioni in aree multietniche o minoritarie.

Il concetto della cooperazione civile-militare (CIMIC), importante per consentire ai militari di allacciare rapporti con le popolazioni che risiedono nelle zone di operazione e al fine di fornire assistenza nei casi più urgenti, dovrebbe venire ulteriormente sviluppato e agganciato alla più ampia azione di cooperazione internazionale senza perdere, però, il chiaro raccordo con la componente sicurezza.

Mentre il dibattito progredisce a fatica sul fronte internazionale, con piccoli passi anche verso una riforma del Dipartimento per le Operazioni di Pace delle Nazioni Unite, c’è spazio per iniziative a livello nazionale.

Si potrebbe istituire, ad esempio, sotto la responsabilità della Presidenza del Consiglio, un tavolo di coordinamento che veda al centro i Ministeri degli Esteri e della Difesa, ma che coinvolga anche altri Dicasteri che potrebbero essere coinvolti in queste missioni ibride, quali Interni, Giustizia ed altre amministrazioni o enti, a seconda delle situazioni sul terreno.

Questo tavolo di coordinamento consentirebbe di rafforzare l’impegno nazionale a sostegno dello stato di diritto per la promozione della pace, collegando meglio queste esigenze a quelle della nostra cooperazione e forse anche ad interventi di talune organizzazioni non governative. Il ventaglio delle priorità per l’azione sul terreno deve essere allo stesso tempo ampio e mirato, inteso a promuovere quell’integrazione sociale che è alla base della stabilità interna di ogni Stato.

È indubbio, infatti, che la globalizzazione è soltanto una realtà virtuale se non si tiene conto delle diversità e delle problematiche che affliggono le diverse società e, pertanto, è necessario puntare, in primis, ad una approfondita analisi storico – politica al fine di promuovere modelli adattati ai singoli scenari.

Una delle missioni più importanti affidate alle Organizzazioni Internazionali afferisce al rispetto ed alla protezione dei diritti dell’uomo, che rappresentano sempre più una priorità per le missioni di pace.

La tematica dei diritti umani, assieme a pace e sviluppo, è infatti riconosciuta come uno dei tre pilastri fondamentali dell’azione delle Nazioni Unite ed è questo il filo conduttore delle operazioni di pace, sovente espressamente menzionato nei rispettivi mandati.

In essi la componente militare e quella civile devono operare di concerto al fine di gestire le crisi e garantire la pace. È pur vero che, a volte, queste missioni di pace non hanno sortito gli esiti sperati e, in alcuni casi, organizzazioni regionali come l’Unione Africana, IGAD, Ecowas, OSCE o persino la NATO hanno sostituito o si sono affiancate alle Nazioni Unite, dimostrando il riconoscimento di responsabilità regionali ad operare con decisione nei confronti delle violazioni dei diritti dell’uomo in solidarietà con le popolazioni che soffrono.

Investire allora sulla promozione dei diritti dell’uomo, a cominciare da quelli che riguardano le libertà fondamentali, è sempre più importante per promuovere maggiore stabilità e rafforzarne la resistenza alla destabilizzazione da parte di agenti che possono avere interesse a creare le premesse per futuri conflitti.

Questo investimento non può avvenire solo attraverso agenzie specializzate o organizzazioni non governative: deve diventare anche un elemento dell’azione delle forze internazionali di stabilizzazione.

Sarà dunque opportuno investire sempre più nell’inclusione, nell’intervento delle componenti militari, di professionisti ed esperti provenienti dalla vita civile, con personale preparato, mirando anche alla prospettiva di genere.

La presenza delle donne è importante nelle operazioni di peacekeeping e nei processi diplomatici: esse infatti, “storicamente” risorse preziose per le loro doti di sensibilità ed empatia, rappresentano un valore aggiunto che contribuisce a riequilibrare i sistemi a vantaggio dei processi di umanizzazione. Inoltre, un’apertura a nuovi attori dischiude sempre orizzonti più ottimistici.

Occorre, in sostanza, meglio ancorare le strategie di promozione della pace e prevenzione dei conflitti alle politiche di stabilizzazione di società frammentate e instabili, investendo in iniziative che favoriscano il superamento di tensioni interetniche soprattutto a livello locale e scoraggiare tentazioni di separatismo che permangono purtroppo anche in occidente.

Su questi temi ha preso avvio un dibattito tra organizzazioni regionali anche in sede ONU, con l’obiettivo di aggiornare il concetto stesso di diplomazia preventiva e identificare una più ampia strategia che si inserisca nel contesto della promozione di modelli di sviluppo sostenibile a lungo termine.

A New York, l’Italia ha recentemente presentato un’iniziativa in materia di sviluppo sostenibile per la promozione di società pacifiche, giuste e inclusive, che conferma l’importanza di questo approccio ampio. Strategie volte a rafforzare i processi integrativi anche all’interno di crisi in atto richiedono infatti un impegno congiunto sul fronte umanitario, su quello militare e sull’azione politica tesa a prevenire o a promuovere la composizione del conflitto.

Viviamo in un mondo difficile ed imprevedibile, occorrerebbe trovare lo spazio per rimettere sul tavolo le questioni che interessano direttamente la nostra sicurezza e quella dei popoli, dare prova di leadership attraverso un dialogo empatico al fine di soddisfare le esigenze di ogni singolo paese nel rispetto dei diritti universali dell’uomo.

Lì dove vi sono delle minoranze e non c’è rispetto per le diversità, lì dove si mira al perseguimento di interessi economici senza considerare cultura, storia e tradizioni dei popoli, c’è disperazione ed inquietudine e, inevitabilmente, incombe il pericolo di sfide talora latenti che possono, in casi estremi, concretarsi in minacce alla pace.

Assistiamo da un lato all’afflizione di tutti coloro che vedono calpestati i propri diritti fondamentali e, dall’altro, come una candela che brucia da ambo i lati, all’indebolimento del multilateralismo, degli strumenti di gestione delle crisi e un ritorno alla corsa agli armamenti sulla scia di politiche nazionalistiche influenzate dalla geopolitica.

Gli sviluppi tecnologici, che dovrebbero aiutarci ad affrontare problematiche sempre più complesse, talvolta ci pongono essi stessi ulteriori sfide. Se dovessimo ipotizzare nuovi conflitti tra i Paesi più avanzati, questa volta in prima linea potrebbero esserci dei sistemi robotizzati, le cosiddette armi autonome dotate di intelligenza artificiale.

L’utilizzo di questi sistemi nei conflitti armati non solo è una minaccia per il mondo intero ma pone anche questioni etiche e giuridiche molto rilevanti, atteso che essi sarebbero in grado di agire anche senza bisogno dell’intervento umano. Nelle mani sbagliate potrebbero diventare armi di terrore.

Dalla comunità scientifica si sono levate da tempo voci unanimi per imporre la sospensione di qualsiasi attività finalizzata allo sviluppo di armi autonome ma il dibattito è ancora aperto, gli interessi troppo grandi.

Il 24 gennaio 2019, il Bulletin of the Atomic Scientists, fondato nel 1945 da scienziati dell’Università di Chicago che avevano contribuito a sviluppare le prime armi atomiche nel Progetto Manhattan,  ha informato che  il Doomsday Clock è fermo alla stessa ora dal 2018: due minuti dall’ora X, ossia il punto in cui l’umanità non riuscirà più ad evitare una catastrofe. Per quanto si tratti di una scadenza del tutto simbolica, la sfiducia degli scienziati sulla situazione attuale deve farci riflettere e deve spronarci a trovare soluzioni definitive alle molteplici minacce latenti e non.

Dobbiamo lavorare insieme per far fronte alle sfide globali e transnazionali che interessano la vita di tutti gli Stati, di tutti noi, affinché le diversità diventino un’opportunità di crescita ed integrazione a garanzia della pace tra i popoli.

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*Il seguente articolo è stato recentemente pubblicato su Analisi Difesa

Lamberto Zannier – Ambasciatore, attualmente è l’Alto Commissario sulle Minoranze nazionali dell’OSCE. In precedenza ha ricoperto numerosi incarichi tra i quali Capo Dipartimento Disarmo NATO (91-97) Direttore Centro Prevenzione Conflitti (2002-06) e poi Segretario Generale Osce (2011-17) e Sotto-Segretario Generale Onu per il Kosovo (2008-11).

Domenica De Fazio – Nata in provincia di Napoli nel 1975, laureata in Scienze Politiche e master di II livello in Security ed Intelligence. Tra le pubblicazioni recenti “Human Rights and the International Community”, pubblicato sulla rivista iraniana “International Studies Journal”.