Articolo di Giorgio Gomel

Ancora elezioni in Israele: Netanyahu sconfitto, ma non vi sono vincitori.

Chiamati al voto il 17 settembre, appena cinque mesi dopo le ultime elezioni, gli elettori israeliani hanno prodotto un esito incerto. Né la destra nazionalista, dominante dal 2015 con i partiti religiosi ad essa alleati, né gli antagonisti di centrosinistra ottengono una maggioranza di 61 seggi sui 120 della Knesset. Il Likud di Netanyahu perde sette seggi rispetto all’aprile scorso e non è più il primo partito. 

Sulla campagna elettorale, gravida di accuse volgari e mistificatorie, tese a istigare alla paura dei palestinesi e degli “arabi” di Israele raffigurati come il nemico interno, orchestrate dal partito del Premier uscente, ha pesato anche l’acuirsi del confronto con l’Iran, non più solo tattico-diplomatico ma tendente al ricorso crescente ancorché indiretto alla forza. Israele ha colpito negli ultimi mesi milizie sciite in Siria e sul confine con il Libano protette dall’Iran, nonché sistemi di armi iraniane sul suolo siriano o in transito verso basi di Hezbollah in Libano.

In un contesto in cui i palestinesi sono divisi e deboli, lo stesso mondo arabo appare più distante dalle loro istanze di uno Stato indipendente, sospinto da una convergenza di interessi con Israele e contro l’Iran, l'amministrazione Trump appoggia con atti unilaterali e trionfalistici il governo Netanyahu e solo la UE riafferma la necessità di un accordo di pace fondato sui principi di Oslo e sulla nozione di “due Stati per due popoli”, gli israeliani al seggio tendono a dividersi più sui valori e sul rispetto dello stato di diritto. I temi del confronto elettorale sono stati il rapporto fra religione e Stato, il  potere coercitivo dei religiosi in materia di diritti civili, l’identità del paese come Stato ebraico e democratico, la pretesa del primo ministro Netanyahu di ottenere un’immunità dalle incriminazioni in atto per casi di corruzione e frode e il tentativo dei partiti di destra di ledere istituzioni e corpi indipendenti, quali la Corte suprema, l’accademia, la stampa, il mondo della cultura, le ONG attive nella difesa dei diritti umani, avvicinando Israele a paesi quali la Polonia, l’Ungheria, la Russia con i quali Netanyahu ha condotto una diplomazia astuta e seduttiva.

Come nell’aprile scorso, le elezioni si sono tradotte in modo anomalo in un plebiscito sul futuro di Netanyahu. Questa volta con esito per lui pesantemente negativo.

Solo la sinistra ebraica – laburisti e Unione democratica - rimasta appena al 10 % dei seggi, indebolita dallo slittamento di voti “utili” degli oppositori di Netanyahu verso il partito Blu e bianco guidato da Gantz e la Lista araba unificata, ha agitato il tema dei diritti dei palestinesi ad uno Stato e dei limiti di una democrazia incompiuta, opponendosi alla legge dello “stato-nazione” ebraico. La Lista araba ha invece ottenuto un notevole successo, conquistando 13 seggi sotto la spinta dell’impegno a partecipare al voto vincendo l’astensionismo tipico degli elettori arabi - circa il 20 % della popolazione totale - e della disponibilità espressa dal suo leader a sostenere a date condizioni un governo di centro-sinistra.

L’esito più probabile ad oggi è un governo di unità nazionale che unisca il partito centrista di Benny Gantz, il Likud senza Netanyahu e il partito di Lieberman, alfiere degli ebrei russi immigrati in Israele, orientati politicamente a destra ma insofferenti del potere dei religiosi, che eserciterà un potere decisivo nella coalizione, a meno di uno stallo paralizzante che costringa ad un altro round elettorale.

Non molto cambierà circa la questione della pace. Il partito di Gantz, eterogeneo nella sua composizione, è ambiguo circa un accordo di pace: allude sì alla separazione dai palestinesi, implicando quindi il ritiro da parte dei territori, ma ritiene - così come il Likud - il Giordano il confine orientale di Israele, soggetto quindi con l’area ad esso prossima alla sua giurisdizione militare. La soluzione “a due Stati” è sempre più difficile nei fatti. Per gli israeliani, i palestinesi restano invisibili, dietro il muro di separazione, un nemico che può essere contenuto in un conflitto a bassa intensità, nonostante lo stillicidio di vittime da una parte e dall’altra per atti di terrorismo e repressione. Il governo tenderà a mantenere lo status quo, forse senza quell’annessione formale proclamata da Netanyahu come promessa elettorale, ma con una ulteriore espansione degli insediamenti.

*Il presente articolo sarà pubblicato nelle prossime settimane sulla rivista Confronti

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