Articolo di Antonio Armellini

Algeria, fra rivoluzione e illusione

La rimozione di Abdelaziz Bouteflika segna un punto di passaggio importante nella vicenda politica dell’Algeria. Che annunci anche la fine di un’era, resta da dimostrare.  Egli è rimasto troppo a lungo al centro di un sistema di potere di cui era ad un tempo continuatore intelligente, riformatore e garante; il disfacimento wagneriano in cui si è trascinato, o meglio ha lasciato che si trascinasse l’autunno della sua presidenza, ha finito per coinvolgere anche aldilà del giusto il giudizio storico su di lui. Attenzione però: se negli ultimi tempi poteva far pensare all’ultimo Breznev, rimane comunque di diverse spanne al di sopra di quanti hanno animato negli anni la scena politica del paese.

            L’Algeria è l’unica nella regione ad avere conquistato l’indipendenza attraverso una vera e propria guerra di liberazione e questo – si osserva – è stato uno dei motivi della sostanziale stabilità del suo impianto politico ed istituzionale, che i sommovimenti della “primavera araba” hanno solo sfiorato. Stabile sì, ma bisogna intendersi: nel passaggio dalla guerra di liberazione alla gestione del governo il Front de libération nationale-FLN ha dapprima divorato quanti avevano fatto la guerra per davvero, dans l’intérieur (a partire da Ben Bellah, eroe cantato e tenuto in semidetenzione per decenni), lasciando il campo a quanti l’avevano appoggiata de l’exterieur ed erano rientrati nel paese con l’indipendenza. Questi avevano uso di mondo, contatti politici, maggiore esperienza e capacità di movimento e presero saldamente in mano le redini del potere senza più mollarle, creando una frattura fra le due anime del FLN che ha condizionato più di quanto si pensi gli sviluppi successivi. Bouteflika della nuova Algeria indipendente era un esponente sin troppo di spicco, tanto è vero che dopo una prima ascesa meteorica venne rapidamente messo da parte: ha seguito dall’esterno il consolidarsi del “pouvoir” – il termine ambiguo con cui viene indicato l’intreccio di politica, clientela, interessi economici e potere militare che ha governato ininterrottamente il paese – conoscendone a fondo meccanismi e condizionamenti, senza tuttavia esserne direttamente parte determinante.

            Era logico quindi che nel momento in cui il progressivo esaurirsi della minaccia terrorista degli anni novanta rendeva possibile un diverso compromesso politico, toccasse a lui. Cosa che fece ponendosi come arbitro di un accordo che legittimava il ruolo politico degli islamisti e correggeva il potere dei militari, senza annullarlo. Un’operazione di grande abilità, che ha assicurato anni di stabilità e che testimonia della sua superiore capacità di elaborazione politico-strategica. Gli squilibri economici e le distorsioni della società civile – di cui era gestore il pouvoir - quelli no, non poteva affrontarli perché di esso egli era a sua volta diventato garante e non solo controllore. I problemi sono così rimasti tutti più o meno sul tavolo e presentano ora un conto difficile da saldare.

            Al momento dell’indipendenza, l’Algeria contava più o meno sette milioni di abitanti, di cui oltre un milione erano francesi: non solo grandi colons e funzionari, professionisti, e commercianti, ma contadini, falegnami, operai, elettricisti e così via. Era tutto un sapere che si volatilizzò nel giro di pochi mesi, lasciando un vuoto di competenze che chiedeva di essere colmato. Non andò così e – a parte gli entusiasmi delle prime fasi dello sviluppo socialista – l’Algeria indipendente ha contato sulla rendita petrolifera per garantirsi il necessario rinunciando sostanzialmente a produrlo. Un’economia di trasferimenti che ha permesso uno sviluppo dei consumi a macchia di leopardo: non è un caso se molto spesso i sommovimenti popolari hanno coinciso con periodi in cui il prezzo di gas e petrolio subiva forti riduzioni.

            L’Algeria laica e repubblicana, con una società civile attenta e dei media attivi nel dibattito politico, ha convissuto in equilibrio precario con la sua componente islamica; non si è trattato tanto dello scontro tradizionale fra città e campagna, quanto dell’alternativa fra una tradizione islamica che si voleva espressione autentica dell’identità nazionale e una tradizione repubblicana accusata di essere fondata su valori imposti da una dominazione coloniale da cancellare. Il tentativo dei militari di porre un argine all’influenza strisciante del fondamentalismo – di cui la vicenda Sant’Egidio ha rappresentato un capitolo assai controverso – si risolse in anni di terrorismo e guerra civile, scuotendo l’impianto statuale dalle fondamenta.  Bouteflika  ha riportato il fondamentalismo nell’alveo del dibattito politico senza stravolgere l’impianto delle istituzioni repubblicane, consentendo al pouvoir di adattarsi e di sopravvivere, senza modificare sostanzialmente gli equilibri al suo interno. Cosa di cui non sarebbe stato capace anche qualora fosse stato nelle sue intenzioni, perché l’immobilismo del pouvoir, al cui centro restava il coacervo di interessi tradizionali, e la salvaguardia di un assetto che continuava stancamente a richiamarsi all’eredità della rivoluzione, non poteva non avere il sopravvento su qualsiasi idea di rinnovamento e di democratizzazione effettiva.

            Il paese è rimasto quello dove tutto si importa e nulla o quasi si produce e la corruzione ne rappresenta una cifra ineliminabile. La crescita esponenziale della popolazione si traduce in livelli di disoccupazione giovanile insostenibili: gli hittistes (“quelli che sostengono i muri”), termine impiegato per descrivere coloro che passano le giornate lungo le strade nell’attesa di un visto per l’estero, crescono; ad essi si aggiungono sempre più numerosi gli harraga, che a bodo di barchini improvvisati fanno rotta verso la Sardegna (e la Spagna). La manna petrolifera non basta a contenerne le rivendicazioni e l’andamento altalenante delle sue quotazioni esaspera le situazioni. Il rapporto freudiano con la Francia continua a condizionare atteggiamenti e aspettative, a riprova di una lacerazione non risolta da entrambe le parti (fu davvero devastante; partendo i francesi trasferirono non solo se stessi ma persino l’anagrafe, che ancor oggi si trova a Clermont Ferrand). Un’economia compradora fondata sull’export energetico non può non cadere vittima dei condizionamenti che le logiche multinazionali che lo governano impongono anche a paesi più solidi.

            I giovani che sono scesi per strada hanno una memoria sbiadita delle vicende dell’indipendenza e la loro protesta subisce meno i condizionamenti del passato mentre le donne, anch’esse numerose, rappresentano da sempre l’anima della protesta civile del paese. La condizione economica è quella che è, tuttavia, e alla democrazia algerina mancano gli strumenti per una rappresentanza efficace: le formazioni politiche di opposizione – socialiste, berbere, radicali – sono state cloroformizzate nell’irrilevanza e, quanto alle strutture di governo, la rimozione del Presidente non ha scalfito gli equilibri di fondo: se  è stato possibile far fuori il sempiterno Capo dei Servizi, “Toufik” Mediène, resta il fatto che quanti dovrebbero poter garantire la transizione – i Sellal, i Bensalah, i Benflis, i Bedoui, i Djemal ma per converso anche i Said Sadi – sono esponenti variamente squalificati e solo strumentalmente pentiti del sistema di potere precedente.     

                Difficile prevedere cosa potranno riservare le prossime elezioni, quando si terranno: la data resta ancora nebulosa. L’impianto istituzionale resta nell’insieme solido e la protesta si è soprattutto rivolta verso la rivendicazione di riforme capaci di dare un senso compiuto a una democrazia che lo attende da sessant’anni e promuovere uno sviluppo economico capace di una vera creazione di posti di lavoro. Superare l’attuale economia compradora vuol dire attaccare il sistema di potere politico su cui si basa e rispetto al quale, come si diceva, mancano strumenti adeguati che possano tradurre una domanda forte, ma generica, di rinnovamento in risultati concreti. La piazza oscilla fra la tentazione di un movimentismo a tutto campo e la ricerca di nuovi punti di aggregazione politica, nel deserto di leadership alternative creato ad arte in un ventennio da Bouteflika. Le redini del gioco sembrano passare sempre più nelle mani dell’esercito, quasi come attraverso un recupero della sua vocazione “rivoluzionaria” originale: il Capo di Stato Maggiore Gaid Salah è una sorta di Presidente di fatto e si è sin qui astenuto da qualsiasi interferenza formale nel processo politico: gli osservatori si interrogano se il suo ruolo potrà essere quello di un Simon Bolivar o non, piuttosto, di un Wojciech Jaruzelski. Il fondamentalismo islamico ha costituito in passato un canale efficace per incanalare la protesta; oggi sembra meno in grado di assumere un simile ruolo, ma sottovalutarne la portata potrebbe essere, ancora una volta, pericoloso.