Senza una trasformazione dei partiti europeisti l’europeismo non ha futuro

Umberto Marengo
Project Leader a The Economist Intelligence Unit a Londra.

L’Europeismo, ovvero il processo di costruzione di un’Europa politicamente unita ed economicamente interdipendente, è il terzo grande risultato, insieme agli accordi di Bretton Woods e alla NATO, del consenso democratico costruito dalla generazione del secondo dopoguerra. Questo consenso si reggeva su una triplice promessa: benessere e crescita per tutti, diritto all’autodeterminazione individuale, pace in Occidente attraverso istituzioni internazionali e una certa dose di multilateralismo. John Kennedy lo disse esplicitamente quando, nel 1962, invitò le istituzioni europee a una “Dichiarazione d’interdipendenza” con gli Stati Uniti due secoli dopo dalla Dichiarazione d’indipendenza americana.

Per decenni ogni nostra generazione si è aspettata non solo di poter ambire a condizioni di vita migliori rispetto alle precedenti ma anche, come scrive Giovanni Orsina ne La Politica del Narcisimo, di avere un diritto al benessere e all’autoaffermazione. Questo modello è in crisi e con esso sono in crisi le istituzioni e le élite che lo rappresentano. Con sincero realismo dobbiamo ammettere che il consenso verso un’Europa aperta e unita si è eroso rapidamente quando i fatti hanno smentito, nella vita di molti, questa promessa di crescente benessere e autonomia.

Come si manifesta questa crisi? L’effetto più visibile è che in pochi anni è cambiato il perimetro di ciò che l’opinione pubblica è disposta a credere o tollerare. Sono diventate sempre più comuni espressioni di dichiarato razzismo o antisemitismo (da Orban a perfino parte del Labour inglese), e palese negazione della realtà (si pensi al surreale tema dei vaccini). Evidenti dimostrazioni di incompetenza sono accettate come esempi di riscatto anti-casta (una per tutte, la messa in stand by dell’Ilva che ci costa un milione di Euro al giorno). Persa la fiducia nella competenza delle classi dirigenti ci si affida a qualunque semplificazione purché nuova e “spontanea”. In breve, il voto è diventato uno strumento di vendetta contro le promesse tradite, di cui l’Europa è il primo bersaglio.

Pierre Moscovici sottolinea nel suo contributo la necessità di dare risposte istituzionali e comuni alle due crisi che hanno colpito l’Europa: la crisi economica e la crisi delle migrazioni. In entrambi i casi l’Europa non ha saputo reagire a shock esterni che hanno finito con l’esacerbare problemi strutturali presenti da tempo. La crisi finanziaria ha reso l’Italia vulnerabile perché il paese era già in stagnazione da decenni.

Piantini suggerisce sette linee d’azione: il fronte europeista deve rivendicare pubblicamente e con più coraggio i benefici dell’Europa. Devono essere rafforzati il mercato, le istituzioni e diritti degli europei. I partiti politici devono farsi carico di un’educazione europeista. Le istituzioni europee vanno riformate per permettere un’effettiva condivisione del rischio, sia economico attraverso la riforma dell’Eurozona, che sociale con una migliore gestione dei migranti.

Nessuno di questi problemi ha una risposta nazionale, e quindi la risposta deve essere europea, partire dalle sue istituzioni. Ma la risposta istituzionale non è per nulla sufficiente.

Le élite devono rispondere alla crisi di democrazia con un esercizio, una pratica concreta di democrazia. Il primo passo è mettere da parte l’argomento del “non ci sono alternative”. Anche quando è vero, la mancanza di alternative è il punto di arrivo di un ragionamento mai il punto di partenza. Il secondo è mettere fine alla politica dell’autoesaltazione, dell’ “avevamo ragione noi e ve ne accorgerete”. Semplicemente, non hai mai, mai funzionato. Il terzo, il più importante, è l’ascolto. Progressisti ed europeisti hanno bisogno di meno editoriali ma più volontari e mobilitazione. C'è un enorme equivoco quando si parla di società disintermediata. Disintermediazione significa che le associazioni di rappresentanza intermedia sono meno forti, non certo che è sparita la domanda di riconoscimento da parte dell’elettorato. La lezione più importante di questi anni è anche la più banale: la politica resta, anche e soprattutto nell’epoca della disintermediazione, la “forza dei noi”. In ultima analisi consenso e voti vanno a chi fa sentire riconosciuti, apprezzati e protetti gli elettori, singolarmente e come comunità.

Rafforzare le istituzioni europee continua a essere fondamentale, tanto più in un periodo di crescente instabilità. Ma l’europeismo è l’espressione di un modello democratico oggi in crisi. Non tanto a causa del cosiddetto “deficit democratico” dell’Unione, ma molto più profondamente a causa del crollo del consenso verso i partiti nazionali europeisti. Senza forti partiti europeisti l’europeismo non ha futuro. Solo ripensando a cosa vuol dire fare rappresentanza, partecipazione, e militanza politica, l’europeismo potrà sopravvivere.