L'Europa del futuro

Laura Mirachian
Già Ambasciatore a Damasco e Rappresentante permanente presso l’Onu a Ginevra interviene al dibattito sul futuro della UE e dell'europeismo.

Non vi è dubbio che l’Europa registri oggi forti spinte centrifughe, disaffezione di larghi settori dell’opinione pubblica, visioni divergenti sulle priorità da perseguire, e che l’eurozona in particolare sia dilaniata da contrasti tra coloro che ritengono, capofila Berlino, che la riduzione del rischio debba precedere la condivisione del medesimo e coloro che puntano a una contestualità tra condivisione e riduzione e considerano necessario dotare l’euro di un proprio bilancio. Non si tratta evidentemente di tecnicismi, l’euro è un architrave della costruzione europea. La stessa Commissione ipotizza, trai cinque scenari per uscire dalla crisi elencati nel suo recente documento, la possibilità di un bilancio per l’euro. E’ uno dei punti prospettati nelle proposte italiane di riforma. Sappiamo peraltro che questo strumento ha per ora scarse possibilità di essere praticato. Troppe diffidenze.

Nello scenario che si è venuto a creare, ragioni e torti sono pressoché distribuiti. Sposterei l’analisi sul piano squisitamente politico. Come si è arrivati a questa situazione di disaffezione delle opinioni pubbliche dal progetto europeo, a questa mancanza assoluta di fiducia tra Stati Membri e nei confronti delle Istituzioni, a questa introversione sui temi del sovranismo vuoi nazionalismo, questo virus che pervade praticamente tutti i popoli europei? E come rimediare?

Penso che sarebbe anzitutto un errore considerare i problemi europei in isolamento rispetto al contesto internazionale. Una globalizzazione mal gestita corredata da conquiste tecnologiche ha confinato ai margini larghi settori dei ceti medi, in Europa e in altre economie avanzate. Analogo fenomeno è in corso negli Stati Uniti e ha partorito Trump. Ma per l’Europa si aggiungono altri fattori. Certamente, le molte distorsioni o lacune per così dire ‘tecniche’, l’asimmetria nelle regole finanziarie (deficit/surplus) che determinano squilibri economici, un regolamento di Dublino assolutamente obsoleto e sfasato rispetto agli attuali scenari, l’oblìo in cui sono caduti i grandi progetti di investimento per il ‘bene comune’ che pure Delors aveva a suo tempo delineato, la generale percezione di insicurezza legata al fenomeno dell’immigrazione/terrorismo, non ultimo il prevalere del metodo inter-governativo rispetto al rafforzamento delle istituzioni. Tutte questioni di cui peraltro l’Italia è corresponsabile quale protagonista storico al tavolo negoziale.

Ma sopra a tutto questo, vi è la mancanza di uno slancio ideale, di una ragione valida per stare insieme, una volta che la missione cruciale della prima ora - ‘mai più guerre tra di noi’ - ha perduto la propria ragion d’essere. Dopo decenni di crescita e di benessere, oggi nessuno più immagina, tantomeno le generazioni post-belliche, che possano esservi guerre in Europa. Le battaglie si sono semmai trasferite sul piano economico e sociale.

L’Europa (non solo l’eurozona) ha bisogno di una nuova, credibile, missione se vuole sopravvivere. Non vi sarà maggiore integrazione, nemmeno tra i Paesi Membri più ‘europeisti’, senza alzare lo sguardo verso nuovi ideali. Quali? L’argomento che senza Europa nessuno degli Stati Membri ha la forza per sostenere la concorrenza nel mercato globale è valido per alcuni, poco rilevante per i più forti (Germania), ma certamente ha scarsa presa sul largo pubblico.

 Sarebbe forse più utile cominciare a parlare di ‘Europa delle opportunità’, basata su solidarietà ed equità. Un’Europa quindi più vicina ai cittadini, ai problemi dei ceti che si sono smarriti per strada, e che risponda alla pressante domanda di sicurezza, che oltre che il problema immigrazione e terrorismo include anche le prospettive di lavoro e di vita. Non basta una pur necessaria Difesa Comune, occorre una rete di sostegno ben gestita, razionale, che punti a innovazione, formazione, rafforzamento della concorrenzialità, e non ultimo protezione. Avvicinare le istituzioni alla gente è il presupposto per puntare ad un aumento del tasso di sovra-nazionalità. Che quindi non è una pregiudiziale, è una conquista.  Non vi è nulla di moralistico in tutto questo, trattasi di ricostruire il consenso, aggiornando gli obiettivi ancor prima che il modello.

E qui si apre il discorso sulla dimensione interna del nostro Paese: la depressione economica italiana è solo colpa degli squilibri dell’Europa? O peggio, dell’impronta ‘morale’ di alcuni nostri partner che vorrebbero i nostri conti in ordine e temono di dover pagare i nostri debiti? Oppure la responsabilità della voragine è anche nostra? Degli aggiustamenti macro-economici mancati a fronte della globalizzazione, della farragine normativa che appesantisce il sistema, inefficienza della pubblica amministrazione, disfunzioni del sistema giudiziario, illegalità diffusa, sprechi, e via di seguito.

Se un ruolo costruttivo l’Italia vuole assumere in queste difficili circostanze, questo dovrebbe essere condotto parallelamente sul piano dei nuovi ideali/obiettivi per l’Europa e su quello delle riforme nazionali. Una “strategia credibile di rinnovamento della nostra economia”, una maggiore attenzione alla “giustizia sociale”, dice Romano Prodi sul Messaggero del 30 maggio. Lavorare dunque sul duplice piano europeo e interno. Solo così potremo riconquistare la fiducia dei nostri partner, smantellarne il fastidioso senso di ‘superiorità morale’, riacquisire credibilità, favorire condizioni di crescita nazionale e collettiva, costruire l’Europa del futuro.