La grande scommessa della sovranità condivisa

Fabio Masini
Docente di Storia e teorie delle relazioni economiche internazionali presso il Dipartimento di Scienze Politiche dell’Ateneo di Roma Tre, è uno studioso dell’integrazione economica e monetaria europea ed internazionale.

Le domande poste da Marco Piantini investono temi di ampia portata: il ruolo e la natura della sinistra, del processo d’integrazione europea, dell’europeismo organizzato, dei mezzi di comunicazione, e molto altro. Sono domande essenziali al dibattito ed all’azione politica, soprattutto in questo momento di profonda crisi sia del processo d’integrazione europea sia della sinistra, con destini che in qualche modo si sono intrecciati, recentemente, in negativo.

Allo stesso tempo appaiono tardive. Se la sinistra si fosse posta queste stesse domande nel corso dell’ultimo decennio, riconoscendone la natura ineludibile per la sopravvivenza di sé stessa e dell’integrazione europea, non credo che adesso saremmo nella situazione critica nella quale ci troviamo. Ma forse, anche se è una riflessione amara, solo nei momenti di crisi si ha davvero il coraggio di affrontare i temi veri, profondi, senza rincorrere strategie di mera ricerca del consenso elettorale.

Partirò da lontano, sperando di non scoraggiare qualche lettore. In assenza di un contesto logico di riferimento, temo che sarebbe altrimenti difficile collocare i tentativi di risposta alle domande poste da Marco.

In sintesi: l’umanità intera sta oggi affrontando una fase di recrudescenza del mito sovranista, che si traduce ogni giorno di più in rigurgiti nazionalisti; e la più diretta causa di questo esito, che si spera provvisorio e in parte ciclico, sta nel fallimento del progetto originario d’integrazione europea, di cui la sinistra è, a sua volta, uno dei maggiori responsabili. Vediamo adesso di spiegare il senso di questa sintesi.

Le due guerre mondiali avevano palesato, almeno a un’influente cerchia di intellettuali sparsi per il mondo, che la radice fondamentale dei conflitti armati, e quindi delle sciagure che rischiavano ormai di annientare l’umanità, era da individuarsi nel monopolio statale della sovranità, ossia in quel rapporto di scambio fra lealtà del cittadino-suddito (che paga le imposte ed è pronto ad arruolarsi nell’esercito per la difesa e la sopravvivenza del sovrano, poi del sistema parlamentare di governo) e la fornitura, da parte del sovrano/governo, di quei beni pubblici necessari alla sopravvivenza ed al benessere degli individui.

Questa sovranità assoluta ed esclusiva degli Stati-nazione, inizialmente funzionale a raccogliere tutte le energie necessarie per combattere gli Stati limitrofi ed affermare la propria  indipendenza o superiorità, costringe però gli individui, per loro natura soggetti complessi dotati di identità collettive multiple e spesso sovrapposte, ad essere, in ultima istanza, nemici. Quando sorge un conflitto, prevale l’identità nazionale; in suo nome si combattono le guerre.

La grande promessa del processo d’integrazione europea, quando settant’anni fa abbiamo lasciato il modello intrinsecamente conflittuale delle sovranità nazionali assolute ed esclusive, era di riuscire a costruire un nuovo modello di convivenza civile dove i conflitti fra Stati fossero sostituiti da liti di natura giudiziaria, attraverso la condivisione di parti della sovranità. Un processo guardato con attenzione in tutto il mondo: se avesse avuto successo in Europa, dove si annidavano le potenze con tentazioni egemoniche più minacciose, avrebbe potuto diventare un modello replicabile in altre parti del pianeta.

L’idea alla base della fondazione della Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio nel 1951 era esattamente questa: condividere il potere di determinare investimenti, produzione e prezzi di due risorse cruciali per fare una guerra (all’epoca carbone e acciaio), ponendolo nelle mani di un’istituzione collegiale, autonoma e al di sopra delle legislazioni nazionali.

Sapevamo che era solo un inizio, una tappa verso una maggiore condivisione della sovranità. Infatti Schuman, nella storica Dichiarazione del 9 maggio 1950 che suggeriva proprio la creazione della CECA, parlava, in prospettiva, di giungere ad una vera e propria Federazione Europea.

Perché una Federazione? Perché il modello federale è l’unico sistema costituzionale conosciuto in grado di frammentare il monopolio statale della sovranità e riscostruirlo sulla base di un sistema democratico multi-livello, in cui i cittadini siano al tempo stesso cittadini di uno Stato e di una Federazione che li riunisce; di spezzare il legame forzoso ed assolutamente innaturale fra identità individuali ed identità collettiva-nazionale; di dare coerenza (seppur minima) alla natura multidimensionale delle identità umane. Si può anche (giustamente) inneggiare all’importanza del pluralismo nella visione dell’integrazione europea, ma se non si riconosce la centralità e la preminenza di questo elemento teorico (il federalismo costituzionale) e della relativa azione politica tesa a farlo emergere, non si coglie l’elemento distintivo del problema.

Ebbene, è esattamente questa la natura del progetto che, ad oggi, in Europa, risulta aver fallito (naturalmente non si intendono qui negare gli enormi successi dell’integrazione europea, che diamo tuttavia per acquisiti all’interno di questo dibattito). Non si sono costruiti (sufficienti) spazi di decisione collettiva, ossia di sovranità, su più livelli. Semplicemente, l’interdipendenza crescente della globalizzazione e i tentativi maldestri di procedere sulla strada dell’integrazione solo economica (anzi, solo monetaria) hanno indebolito gli spazi di sovranità degli Stati, senza che essa venisse allo stesso tempo creata, in forma condivisa, a livello europeo.

Oggi, ad esempio, nell’Unione Europea, la cittadinanza è ancora indiretta. Siamo cittadini europei se e solo se siamo anche cittadini di uno Stato membro. Non esistono diritti e doveri specifici di cittadinanza europea, indipendenti dalla cittadinanza nazionale, anche se il recente voto del Parlamento europeo in difesa delle libertà fondamentali in Ungheria apre uno spiraglio in tal senso. Questo significa che, in ultima istanza, ossia quando i conflitti si fanno più seri, l’unico sistema di governo giuridicamente preposto a soddisfare i bisogni dei cittadini è quello nazionale; ed a quello, in situazioni di crisi, ci si rivolge.

Ho spesso utilizzato, per descrivere la situazione europea di oggi, la metafora del fiume: settant’anni fa abbiamo abbandonato la sponda delle sovranità nazionali assolute ed esclusive, col loro carico di rischi di conflitti armati, per incamminarci lungo il letto di un fiume verso l’altra sponda, quella delle sovranità condivise (dai contorni incerti, ma di grandi promesse). Quando, dopo il 1989 (con la fine dell’equilibrio bipolare) e soprattutto dopo il 2007-8 (con la crisi finanziaria che è poi divenuta in Europa crisi dei debiti sovrani) il livello nel fiume ha iniziato rapidamente a crescere, ci siamo trovati con l’acqua alla gola e qualcuno ha iniziato a guardarsi indietro, verso la sponda conflittuale ma nota (quindi tutto sommato più rassicurante) dalla quale venivamo. Non aver compreso per tempo che si trattava di una normale reazione fisiologica, istintiva al bisogno di rassicurazione, di domanda di esercizio della sovranità ha impedito di comprendere il nascere e l’attecchire di tentazioni che sono poi degenerate nel sovranismo nazionalista.

La risposta che l’Europa intergovernativa, priva di effettiva capacità di agire e legittimità democratica, ha saputo dare (invece che fornire subito un quadro chiaro di cosa ci attendeva sull’altra sponda e soprattutto in che tempi ci saremmo arrivati) è stata solo partorire qualche nuova e più vincolante regola fiscale nel quadro di accordi diplomatici (Consiglio Europeo). Piuttosto che condividere la sovranità necessaria ad affrontare collettivamente sfide interne ed esterne senza precedenti (crisi economica, emergenza terroristica, flussi migratori), ci siamo richiusi nel modello di gestione confederale che, come ben sappiamo dalla storia degli USA, porta solo al rischio di una guerra civile.

La sinistra non ha saputo opporre a questo quadro e alle crescenti domande dei cittadini una visione che non fosse la semplice riproposizione della retorica del successo, secondo la quale l’Unione Europea è stata un grande percorso contrassegnato da successi (liberalizzazione dei movimenti di capitali e persone, mercato unico, moneta unica). Senza accorgersi, o quantomeno senza spiegare, che tutti quei successi, se non governati da un sistema decisionale ed istituzionale efficiente e democratico, avrebbero mostrato il rovescio della medaglia, trasformandosi in altrettanti insuccessi. È questo che ha invece fatto magistralmente la retorica del fallimento, che domina ormai il dibattito pubblico sull’unione Europea, e di cui si è resa magistrale interprete la demagogia populista.

Certo: i cambiamenti tecnologici, la profonda trasformazione del mercato del lavoro e degli stessi processi produttivi, la finanziarizzazione dell’economia hanno rappresentato elementi di rottura drammatica rispetto al contesto sociale, economico e politico in cui si è mossa la sinistra fino a qualche decennio fa. Cambiamenti sufficienti a metterne in crisi l’identità. Ma non si tratta di innovazioni arrivate improvvisamente, cadute dal cielo. Sono processi che vanno avanti da almeno venti, trent’anni. E che, molto semplicemente, andavano governati.

La sinistra si è illusa che diminuire lo spazio d’intervento dei poteri pubblici nelle grandi scelte economiche e politiche fosse inevitabile, e che in alcuni casi fosse addirittura la risposta più moderna a questi cambiamenti, abbacinati dalla nuova ideologia dominante dei mercati efficienti. Di fronte all’enorme interdipendenza che caratterizza questi fenomeni, invece che rafforzare in maniera decisa le varie identità collettive (necessarie per dare risposte collettive credibili ed efficaci) la sinistra ha lasciato che si compisse l’erosione degli spazi pubblici. Anzi, spesso l’ha favorita e guidata.

Invece che recuperare e difendere l’importanza (per tutelare i valori progressisti della sinistra) di una sovranità articolata su più livelli, da quello locale a quello globale, ha ceduto alle tentazioni della tecnocrazia sovranazionale; senza mettere in discussione il nocciolo della questione, il monopolio statale sulla sovranità, ma anzi contribuendo a smorzarlo nel quadro di una smaterializzazione dei centri decisionali collettivi a favore di agenzie private o burocrazie non fondate sulla legittimità democratica.

In questo senso, essere sinistra oggi significa, prima di tutto, spezzare la sovrapposizione sempre più radicale e pericolosa fra difesa della sovranità e nazionalismo. I sovranisti rivendicano (giustamente), ma solo per gli Stati (erroneamente), la sovranità che gli Stati stessi non sono più in grado di esercitare. Occorre allora una nuova narrazione, che metta in evidenza come nel mondo di oggi l’esercizio della sovranità da parte dei cittadini non sia più possibile esclusivamente al livello degli Stati nazionali, almeno non di quelli europei. Le grandi sfide e le grandi battaglie per il potere sulle risorse naturali, finanziarie, militari a livello mondiale, quelle per l’affermazione dei diritti sociali in un mutato contesto di competizione internazionale non si possono giocare con le dimensioni dei paesi del Vecchio Continente. Neanche delle dimensioni demografiche, economiche e politiche della Germania. Figuriamoci dell’Italia. È da qui che la sinistra dovrebbe ripartire per ricostruire quella rete di attenzione alla solidarietà, alla giustizia distributiva, all’uguaglianza di opportunità che ci si aspetta da lei.

Questa considerazione ne porta con sé un’altra: non è un caso che l’esercizio della sovranità (risolvere i problemi dei cittadini, soddisfacendo i loro bisogni) si sia completamente scollato dall’esercizio del potere (decidere le nomine nei vari consigli d’amministrazione, chi finanziare, che slogan demagogici adottare per far presa sull’elettorato, etc). Quando la politica non può più esercitare sovranità ma solo potere diventa vuota, autoreferenziale, porta disaffezione; allo stesso tempo, in combinazione con l’urgenza di voler contare ancora qualcosa, i cittadini cedono alla sfiducia, alla disintermediazione, ed indulgono infine al mito dell’uomo-forte-che-decide ed a qualsiasi sogno (e nemico) gli venga dato in pasto. Le elite politiche possono anche essere consapevoli del dramma in atto, ma se questa consapevolezza non si trova casualmente a coincidere col loro interesse elettorale (è questo il caso, almeno fino ad oggi, di Macron), non muoveranno un dito per arginare la deriva antieuropea.

Si potrà obiettare: ma come si può affermare che questa deriva è principalmente responsabilità della sinistra? Ma di chi altro dovrebbe essere? Chi avrebbe dovuto difendere i diritti sociali, arginando (tanto per fare un esempio) il mito dell’austerità espansiva imposto in sede di Consiglio (dove siedono i Capi di Stato e di Governo e che, col voto all’unanimità, favorisce lo status quo) senza aver nemmeno provato a fare una battaglia per rivendicare un ruolo più attivo nelle scelte della società europea da parte del Parlamento (che rappresenta i cittadini)? Chi altri avrebbe dovuto mostrare che l’indifendibilità dei diritti sociali nel contesto politico nazionale dipende dal mancato completamento del disegno di condivisione della sovranità in Europa (che ha determinato una governance perversa dell’economia europea), non dall’euro?

La destra conservatrice ha interesse a togliere spazi di sovranità democratica a favore di organismi tecnocratici (come altro sintetizzare la natura del neoliberalismo?), a lasciare che si compia l’erosione della sovranità nazionale a favore di elite finanziarie mondiali. E la destra nazionalista ha interesse a soffiare sul fuoco di questo palese, mancato esercizio della sovranità per richiedere la sua riappropriazione a livello statuale, oltretutto in un’ottica puramente strumentale ad acquisire potere, non certo ad esercitare la sovranità.

L’errore nel consentire a queste due forze di prevalere è stato della sinistra, mostratasi sempre persa in battaglie altrui e schizofrenicamente oscillante fra le posizioni anti-democratiche della destra conservatrice e le tentazioni sovraniste della destra nazionalista, lasciando così un vuoto sempre più ampio nell’elettorato. Per questo si è verificata una sovrapposizione in negativo fra il destino del processo d’integrazione europea come condivisione della sovranità e quello della sinistra.

Se queste sono le responsabilità specifiche della sinistra, l’europeismo organizzato non può dirsi esente da critiche. Il massimalismo ossessivo e non spiegato di molte forze europeiste e federaliste non ha permesso il contatto con l’opinione pubblica. Un massimalismo comprensibile, sia chiaro: in un contesto di marginalizzazione dalla politica e dai mass-media, ogni occasione andava colta per andare al sodo del messaggio da lanciare: “federazione europea subito”, come recitava uno slogan del Movimento Federalista Europeo. Uno slogan naturalmente vuoto, per il cittadino comune, in assenza di un’operazione paziente di informazione, formazione ed educazione alla cittadinanza attiva ed al senso dell’integrazione europea.

Non solo, ma esiste nel federalismo organizzato anche un problema di contenuto.  Pur sapendo che il modello costituzionale federale è il miglior modo per far fronte alle esigenze di articolazione della sovranità, sappiamo anche che i modelli federali esistenti non sono adeguati per l’Unione Europea. Non lo sono perché troppo fortemente caratterizzati dalla connotazione statalista, laddove in Europa serve un livello sovranazionale più leggero. E perché essenzialmente fondati su due livelli di governo, laddove in Europa sarebbe opportuno articolare il sistema su una pluralità di livelli di governo (da quelli locali a quello europeo).

Da qui la necessità di riprendere il discorso della costituzione europea. O Legge Fondamentale. O come si preferisce chiamarla per evitare di evocare i fantasmi del passato, con le bocciature della costituzione europea (che ‘costituzione’ non era) del 2005.

Vogliamo riprendere il discorso costituente? Vogliamo fermarci stavolta in maniera più seria e credibile a riflettere su come costruire una genuina democrazia sovranazionale, con un meccanismo decisionale finale (referendum confermativo) a doppia maggioranza (di cittadini europei e di Stati) e con la possibilità di lasciar fuori chi non raggiunge la maggioranza di consensi nel proprio Stato senza per questo bloccare il progetto? Vogliamo creare l’occasione per ripensare in maniera coerente e complessiva l’architettura istituzionale dell’Unione Europea, le sue politiche, le competenze di ciascun livello di governo e le relazioni fra loro, i meccanismi decisionali che consentano l’esercizio della democrazia, non la tirannia delle minoranze?

Abbiamo l’urgenza di riscrivere il patto di convivenza civile che regola la vita in Europa. E dobbiamo creare l’occasione per farlo. A maggio prossimo avremo le elezioni del Parlamento Europeo, l’assemblea che rappresenta i cittadini dell’Unione. Elezioni dall’esito non scontato ma sostanzialmente già scritto. Con un fronte nazionalista in forte ascesa, un PPE che mantiene la maggioranza (e quindi legittimato ad esprimere il Presidente della Commissione) grazie a personaggi come Orban, un PSE che uscirà sconfitto, e l’ipotesi Macron che non sarà decisiva, così come verdi e liberali.

A meno che, in nome della ripresa del percorso d’integrazione europea, della sua trasformazione in una genuina democrazia sovranazionale, non vi sia un’alleanza capace di sovvertire i pronostici aggregando in un unico candidato alla Presidenza della Commissione PSE, verdi, liberali e Macron (se metterà da parte la follia di opporsi agli Spitzenkandidaten) e magari un M5S che si lasci alle spalle le tentazioni sovraniste della Lega. Ma soprattutto se ciascuno metterà da parte i propri calcoli elettorali, assumendo un orizzonte temporale di più lungo periodo.

Se questa linea prevarrà, quest’alleanza potrebbe catalizzare più consensi delle altre formazioni politiche, andando alla guida della Commissione. Il Consiglio potrebbe affidare al prossimo Parlamento Europeo una revisione dei Trattati che si trasformi in una sorta di mandato costituente. O potrebbero palesarsi altre formule giuridiche, anche parallelamente e al di fuori dei Trattati esistenti, che facciano emergere una volontà costituente, anche solo in un nucleo significativo di paesi.

In ogni caso, sarà necessario spiegare ai cittadini cosa si sta facendo, perché è necessario riscrivere i Trattati non sotto forma di accordo fra Stati, ma come patto fondativo di una democrazia multi-livello. In questo saranno decisivi i mass-media ed i social-media, nella consapevolezza che si tratta di messaggi difficili da far passare, che richiedono argomentazioni complesse, non slogan.

Scendendo dal livello della costruzione costituzionale al livello delle politiche, vi sono dei dossier aperti che richiedono un intervento urgente dell’Unione Europea, e sui quali è possibile individuare alleanze: il sistema valoriale di una crescita che non necessariamente passa per l’austerità; una politica di sicurezza e difesa efficace ed efficiente; una politica migratoria seria, rigorosa ma inclusiva; il completamento dell’unione economica nel quadro di una riappropriazione democratica e su molteplici livelli delle leve e degli strumenti di politica economica. E molto altro ancora.

In questo quadro, un elemento strategico è, a mio avviso, la battaglia per un bilancio europeo, ossia per definire regole di condivisione di risorse per il finanziamento di beni pubblici su scala europea nei quali possa identificarsi ciascun cittadino europeo. Energia, alta formazione, ricerca, grandi infrastrutture di comunicazione e trasporto; ma anche sicurezza, difesa e cooperazione internazionale (e quindi una politica estera comune, che non sia la semplice contrattazione di un compromesso fra posizioni nazionali contrastanti); e soprattutto la definizione di qualche tratto distintivo e comune di un welfare europeo (come la proposta avanzata dall’Italia per un’indennità di disoccupazione).

Ma attenzione: in assenza di un coerente disegno istituzionale/decisionale, si tratterebbe dell’ennesima contraddizione. Un sistema economico comune, con entrate ed uscite allocate al bilancio europeo, non può essere frutto di un sistema decisionale diplomatico/intergovernativo. Altrimenti il cittadino vivrebbe queste scelte come l’ennesimo sopruso della burocrazia di Bruxelles nelle proprie tasche.

Insomma, c’è una battaglia complessa da combattere. Sia per la sinistra, sia per l’europeismo organizzato. Se, come suggerisce Marco, la costruzione europea è ancora fragile, occorre iniettare nelle sue fondamenta ciò che può renderla più efficace e resiliente; mostrando che l’Unione Europea, o un suo nucleo più stretto, è davvero in grado di cambiare le sorti dei suoi cittadini, creando una società più solidale, equa, competitiva e dinamica, in grado di sedersi al tavolo del potere mondiale per affermare i suoi valori di pace, giustizia, dignità.

Solo riscoprendo i valori profondi dell’integrazione europea come frammentazione e ricostruzione della sovranità su più livelli la sinistra può recuperare lo spazio di trasformazione sociale che le compete. Così come solo con una sinistra finalmente consapevole del suo ruolo di protagonista della trasformazione sociale è possibile una battaglia per il completamento del disegno d’integrazione europea.