Discorsi, saperi, relazioni: rifocalizzare il dibattito su donne e agricoltura in Africa

Barbara D'Ippolito
Dottorata in Sviluppo sostenibile e Cooperazione Internazionale. Attività di ricerca nel campo dell'analisi e valutazione delle politiche pubbliche di sviluppo con particolare riferimento alla dimensione locale e di genere e alle forme e processi di governance e partecipazione.

Accolgo l’invito a contribuire al dibattito sul futuro dell’Africa e su come esso inevitabilemente influenzerà anche quello dell'Europa. Il mio punto di partenza è il quinto degli Obiettivi per lo Sviluppo Sostenibile che recita: “la disuguaglianza di genere è uno dei maggiori ostacoli allo sviluppo sostenibile, alla crescita economica e alla riduzione della povertà”. Legherò questo tema a quello dell’efficacia degli aiuti allo sviluppo in Africa attraverso alcune domande informate da un’ottica di genere, concentrandomi soprattutto sull'agricoltura e sul settore rurale. Un recente rapporto FAO (Empowering Africa's Rural Women for Zero Hunger and Shared Prosperity, 2018) rileva che in questo settore sono impiegate quasi il 50% delle donne, quota che supera il 60% in alcuni Paesi, quali Lesotho, Mozambico o Sierra Leone. 

A field of One’s Own

Un sistema agricolo non esiste ontologicamente fuori dalla società. In che modo allora le proposte di cambiamento indotte dall’esterno entrano in relazione con le dinamiche locali? Quali processi sociali sono messi in moto tra i molteplici attori che ne sono coinvolti direttamente o indirettamente? E tutto questo che impatto ha su uomini e donne coinvolti nei processi di sviluppo a livello locale? Gabriella Rossetti, nel suo “Terre di donne, terre di uomini: la tradizione alimenta il futuro?”, ci ricorda che, quando si parla di agricoltura in Africa, si stabilisce un “ovvio legame” tra donne e agricoltura e come la natura di tale legame passi dalle relazioni tra uomini e donne e dal loro livello di controllo sulle scelte produttive. Ormai da anni l’enorme mole di dati raccolti rivela come povertà e disuguaglianza non siano neutri rispetto al genere, portando a parlare di “femminilizzazione della povertà” e richiedendo maggior riconoscimento e sostegno al contributo fondamentale che le donne danno alla sicurezza alimentare e alla nutrizione.

Come garantire, dunque, che i programmi di cooperazione rispondano realmente ai bisogni e alle richieste di uomini e donne sul terreno? Qual è la relazione tra aiuto e la complessità delle condizioni di vita delle donne nella sfera privata e pubblica? A quali condizioni l’aiuto diventa efficace? Che cosa si dovrebbe andare a guardare?  

Queste domande, a mio avviso, possono consentire di orientare il ragionamento, offrendo una griglia di analisi e lettura delle strategie e dei programmi/progetti agricoli di sviluppo in Africa subsahariana che non si limiti ad individuare quante e quali misure siano state prese per favorire le donne o quante volte la parola “genere” sia stata ripetuta nei relativi documenti. La sfida consiste nel provare a cimentarsi con l’inevitabile “finzione” -o “messa in scena”- che è sempre propria dei documenti politici e a svelare l’ordine che presiede alla produzione dei discorsi, degli oggetti che da questi scaturiscono, delle posizioni soggettive che vi si trovano implicate.  

Due questioni mi sembrano importanti: la prima,: se -e in che modo- politiche/programmi/progetti propongono soluzioni che possano riprodurre ingiustizie presenti o, viceversa, sono in grado di offrire meccanismi o elementi in qualche modo risolutivi (cosa e chi è incluso e cosa ignorato ed escluso?). La seconda questione riguarda il modo in cui politiche/programmi/progetti contribuiscono a forme di costruzione stereotipate dell’identità di differenti soggetti (come vengono cioè presentati e rappresentati il gruppo o i gruppi target?). 

Un aspetto cruciale di tutte le pratiche politiche è effettivamente cosa -e chi- sia incluso e cosa ignorato ed escluso. Lo stile del discorso politico consiste sempre nel parlare come se così non fosse, come se non esistesse una gerarchia tra differenti valori che inevitabilmente porta con sé delle esclusioni (quello che Laclau e Mouffe definiscono l’“esterno costitutivo” della politica), come se i dati fossero di per sé inclusivi, il processo razionale e i rimedi semplicemente basati sulla conoscenza o sulla ricerca. Nulla è rischioso o dubbioso. Per questo si costruisce un intero vocabolario che ha l’effetto di naturalizzare e oggettivizzare tutto ciò che è fatto e considerato, utilizzando nel caso del lessico dello sviluppo parole alla moda, come “partecipazione”, “empowerment”, “decentramento”, “good governace”, vocabolario che fa da cornice a politiche, programmi di azione e progetti. 

Approcci teorici da ridiscutere

Spesso i documenti di riferimento delle strategie agricole in Africa subsahariana legano insieme la narrativa produttivista e quella sviluppista, che coesistono e sono integrate in ciò che viene proposto come un “nuovo discorso” -in realtà vecchio di quasi 20 anni- all’interno del quale i soggetti vengono rappresentati come un insieme di piccoli imprenditori individuali mossi dalla razionalità del profitto e agenti del loro stesso destino. Soggetti razionali privi di vincoli, incarnati in un corpo maschile (ma che la politica vorrebbe far passare per neutro), attivi fisicamente, consapevoli e autonomi nelle scelte di gestione della attività agricole, con accesso, proprietà e controllo pieni sui mezzi di produzione ed in grado di sfidare le condizioni ambientali e di mercato.  

Ci si focalizza largamente sul creare opportunità per i/le contadini/e facendo proprio l’assunto neoliberale, di cui parla Graham Harrison, di “an immanent property in the poor to be able to escape their own undesirable conditions once properly facilitated to emerge as market actors” e riducendo le cause strutturali della povertà a livello dei valori, delle motivazioni e delle capacità individuali. Agricoltori e agricoltrici non sono considerati come soggetti economico-sociali, inseriti in un contesto di rapporti multipli e complessi, a livello economico, sociale e politico.  

Si omette di dire come la loro propensione al cambiamento sia condizionata non solo dalle convenienze economiche legate al loro lavoro ma anche dalle caratteristiche e dagli interessi economici e sociali della loro famiglia, dalle aspettative di prestigio sociale, dalle norme e dai valori dei gruppi sociali di riferimento (ci sono il marito, il padre, la madre, i legami di parentela più in generale, i differenti gruppi di appartenenza a cui dar conto, dalla disponibilità delle risorse economiche e dei mezzi di produzione, dall'accesso alle informazioni ed alle conoscenze necessarie per la realizzazione del cambiamento, dalle prospettive del mercato). Non si tiene conto, inoltre, di come il ruolo dell’agricoltura non si identifichi esclusivamente con la produzione di beni primari ma faccia proprie funzioni extra produttive: sociali, ambientali, culturali.  

Si omette di prendere in considerazione i meccanismi attraverso cui il capitalismo patriarcale su scala globale funziona e si riproduce attraverso il lavoro di cura universalmente considerato proprio delle donne. Tutti fattori che hanno incidenze differenti su uomini e donne. Questo ritratto non valuta le molteplicità dei livelli decisionali ampiamente interconnessi in Africa subsahariana: le decisioni prese dal singolo contadino mobilitano diverse solidarietà e fanno appello a molteplici interessi, che sono diversi per donne e uomini. Inoltre l’aumento del rendimento o la massimizzazione del profitto attraverso le coltivazioni non sono sempre necessariamente al primo posto nelle preoccupazioni di contadini e contadine, i quali, solitamente, cercano di assicurarsi prima di tutto la sussistenza e la riproduzione, se possibile allargata, poiché ad ogni raccolto mettono in gioco la propria sicurezza. 

Lo stesso utilizzo dell’household, unità di analisi scelta dalle politiche di sviluppo agricolo (rappresentata come nucleo familiare omogeneo i cui membri sembrano possedere uguali interessi e bisogni), oscura la complessità delle relazioni e delle negoziazioni attivate al suo interno, favorendo la costruzione di identità schiacciate su ruoli già previsti all’interno di rapporti disciplinati. L’introduzione -spesso a posteriori- di alcuni strumenti per l’analisi di genere nelle procedure di pianificazione non cambia fondamentalmente la situazione: prevale la tendenza ad aggiungere semplicemente qualche indicatore relativo al genere a procedure già esistenti ma senza inserirlo metodologicamente all’interno della “agenda setting” in modo da “aggiustare” la natura delle relazioni, i processi e le pratiche. Piuttosto viene utilizzata una logica integrazionista che incorpora il genere dentro forme normative stabilite, non introducendo nuovi margini per la negoziazione dei conflitti e quindi non permettendo di modificare sostanzialmente lo spazio politico. 

L’individuazione e la disarticolazione di tali stereotipi è estremamente importante perché permetterebbe a pianificatori e operatori dello sviluppo di evitare di riporvi ciecamente fiducia, commettendo una serie di errori che minano l’efficacia degli interventi. Le donne, quando hanno lo stesso accesso alle competenze, alle risorse e alle opportunità degli uomini, possono diventare potenti fattori di cambiamento nella lotta contro la fame, la malnutrizione e la povertà. 

Saper(s)i situati

Come tutte le forme di conoscenza anche quella agricola non è un prodotto neutrale che può essere accumulato, trattato come una commodity, puramente cognitivo ed aderente ai principi di razionalità e ragione, indipendente dai suoi produttori e scollato dalla realtà delle pratiche agricole. Le politiche di sviluppo agricolo passano spesso attraverso gli agenti dello sviluppo presenti sul campo, che possono assumere via via l’aspetto di Agricultural Extension Officers, Livestock Extension Officers, Community Development Officers, etc.; i quali costituiscono un’interfaccia fondamentale tra i piani di sviluppo agricolo a livello locale e i loro “beneficiari”. È attraverso di loro che passano le istituzioni dello sviluppo, sono loro a dover trasmettere il messaggio dei donors ai “beneficiari”, a sensibilizzare e mobilitare le comunità locali. Sono loro che incarnano tre funzioni distinte: le prime due relative all’essere portatori di saperi tecnico-scientifici e mediatori tra questi ultimi e quelli popolari, la terza quella di essere essi stessi portatori dell’idea sottostante la politica agricola di sviluppo sul campo, che incarnano e trasmettono agli agricoltori attraverso il loro lavoro. Sono loro che “raccontano” il programma e ne rendono fruibile il linguaggio standardizzato attraverso un continuo lavoro di traduzione e ri-semantizzazione. Queste “figure ponte”, tecniche e politiche allo stesso tempo, non fungono solamente da mediatori tra differenti saperi ma da portatori di autorevolezza scientifica e di autorità governativa per la peculiarità delle logiche e della natura degli specifici programmi agricoli che sono chiamati ad attuare. 

Se si esaminano gli aspetti della conoscenza attraverso il prisma del genere, le domande che possono darsi potrebbero essere: quale conoscenza conta, chi può dirsi portatore di conoscenza?

Diversi casi studio in Africa subsahariana mostrano come attraverso il trasferimento di conoscenza si stiano attivando processi di gerarchizzazione delle pratiche agricole che ordinano le differenze e le disciplinano, producendo così una verticalità dei saperi e delle pratiche stesse. L’idea dell’allevamento di polli come occupazione principalmente femminile è, ad esempio, una convinzione spesso diffusa tra i donors. Le donne sono così incoraggiate da Extension Officer dei distretti e dei ward a formare dei “home based business groups” che hanno il vantaggio e lo svantaggio di consentire loro di tenere assieme piccole attività generatrici di reddito e responsabilità di cura, anche laddove il loro contributo risulta esser decisivo per altri tipi di attività agricole non basate all’interno delle proprie case e più redditizie e che portano a ripensare le dicotomie pubblico/privato o il nodo produzione/riproduzione. 

Ricomporre il divorzio tra empowerment delle donne ed efficacia degli aiuti

Aiutiamoli a casa loro è il leit motiv imperante di questa epoca buia che omette però di interrogarsi, in prima battuta, su quanto sia stato espropriato a quel continente nel tempo e, in seconda, su quanto la mancanza di strategie a lungo termine, approcci assistenzialistici, eurocentrismo abbiano minato l’efficacia stessa degli aiuti. 

Ricomporre all’interno di questo quadro il divorzio tra empowerment delle donne ed efficacia degli aiuti richiede a mio avviso in primo luogo il domandarsi se e quanto l’architettura degli aiuti sia realmente “efficace” a rappresentare nuovi soggetti, mutamenti politici e sociali in corso e a tenerne conto. Quanto e in che modo le innovazioni adottate attraverso strumenti di finanziamento all’aiuto siano suscettibili di produrre politiche e programmi efficaci in termini di uguaglianza di genere e di empowerment delle donne e conseguentemente di raggiungere il quinto degli Obiettivi per lo sviluppo sostenibile.  

Spesso, a discapito di anni di “condivisioni di buone pratiche” e “lesson learnt”, non vi è ancora adozione, nell'ambito delle politiche di sviluppo, di rappresentazioni dei sistemi economici, istituzionali, comunitari, etc. capaci di rendere visibili le differenze di genere (rispetto ad esempio all'esclusione dagli spazi pubblici, al controllo delle risorse, al peso della cura, alla violenza domestica, etc.). Come si può essere dunque efficaci su qualcosa che non può essere nominato? Questo passaggio dall’invisibile al visibile è proprio quello che sembra mancare all’interno di molte politiche allo sviluppo per ritrovare una qualche dimensione negoziale a livello internazionale, nazionale e locale. 

Ri-focalizzare lo sguardo

Lo slogan della conferenza di Pechino (1995) era “Guardare il mondo con occhi di donna”. Questo significa ri-focalizzare lo sguardo sulle condizioni del vivere -qui come lì- come spazio della valutazione delle politiche pubbliche allo sviluppo, non solo in termini individuali -andando cioè a guardare la possibilità e/o capacità da parte delle persone di vivere vite gratificanti e degne di essere vissute- ma anche al fine di favorire processi di responsabilizzazione pubblica in termini di impegni e risorse rispetto alle condizioni e alla qualità del vivere di uomini e donne. Finché si continueranno a perseguire politiche apparentemente “neutre” rispetto al genere, ossia prive di impatto differenziale per uomini e donne, le differenze strutturali e i disequilibri tra i due generi continueranno nei fatti ad essere ignorati e perpetuati e le politiche ed i programmi di sviluppo a mancare di efficacia e sostenibilità. 

1 Marzo 2019
di
Roberto Ridolfi - Coordinatore del Forum Africa