Quale europeismo ai tempi della nuova via della seta?

Erik Burckhardt
Vicepresidente del think tank MondoDem.

Negli anni successivi al crollo finanziario del 2008, quando le istituzioni dell’Unione europea erano impegnate faticosamente nel condurre gli Stati membri a un accordo che ne scongiurasse il fallimento di alcuni, la Cina reagiva alle gravi ripercussioni subite dal rallentamento dell’economia globale lanciando un colossale progetto infrastrutturale per connettere tre continenti – Asia, Africa ed Europa – attraverso una nuova rete commerciale. Nello stesso decennio in cui a Bruxelles si sono succeduti infruttuosi consessi e litigiose riunioni per decidere della sorte di qualche decina di migliaia di rifugiati, a Pechino si sono messi a punto gli strumenti per realizzare un piano d’investimenti di almeno 900 miliardi di dollari che coinvolge i 70 paesi che costituiscono più del 40 per cento del PIL mondiale e che sono abitati da quasi cinque miliardi di persone.

È la One Belt One Road, la nuova via della seta con cui la Repubblica popolare cinese promette di costruire una “comunità del futuro condiviso dell’umanità”, capace cioè di promuovere attivamente una globalizzazione equa, inclusiva e sostenibile. Il governo cinese sottolinea il carattere multilaterale e win-to-win del progetto, tema centrale del Belt and Road Forum di Pechino del maggio 2017, che ha visto partecipi numerosi leader internazionali, da Vladimir Putin a Paolo Gentiloni passando per Recep Tayyip Erdogan. Quel che è certo, è che presentandosi come il più grande piano di investimenti infrastrutturali della storia – che può contare anche sulla creazione di un nuovo sistema finanziario come l’Asian Infrastructure Investment Bank (AIIB) e del New Silk Road Fund (NSRF) – l’iniziativa cinese potrebbe potenzialmente ridefinire l’ordine internazionale del dopoguerra attraverso un’importante estensione dell’influenza cinese nel mondo.

Un rafforzamento troppo deciso per non guadagnarsi la forte avversione statunitense. Già con Barack Obama gli Stati Uniti si impegnarono in una vigorosa campagna per sradicare il piano della Belt and Road Initiative (BRI). Oggi, ai tempi della guerra commerciale dichiarata da Donald Trump, il piano cinese è addirittura apertamente boicottato e uno nuovo è stato abbozzato, incentrato però sulle relazioni transpacifiche e con il solo coinvolgimento di Australia, Giappone e India. È vero, d’altronde, che gli Stati Uniti difficilmente potrebbero dirsi favorevoli a un piano commerciale reticolare che taglia fuori proprio il continente americano. Più difficile da definire, invece, è il punto di vista dell’Europa, frontiera finale delle rotte terrestri attraverso l’Eurasia e porto di approdo delle rotte marittime che coinvolgono l’Africa, il cui sviluppo corrisponde – come tardivamente si sta prendendo atto – a un interesse primario europeo.

Bruegel – accreditato centro europeo per studi economici con sede a Bruxelles – stima che la nuova via della seta potrebbe rafforzare sensibilmente il commercio estero dell’Unione con una crescita del 6%. E infatti sono già undici gli Stati membri Ue ad avere firmato documenti e memorandum di cooperazione nel quadro della BRI. Sedici Stati europei se si contano anche i Paesi dell’Europa centrale e orientale non (ancora) membri dell’Unione. Tuttavia, al netto delle semplici manifestazioni d’interesse, l’accoglienza europea per il progetto rimane piuttosto tiepida, raffreddata dal timore che la nuova via della seta finisca con l’essere realizzata con una singola corsia: semplice strumento per veicolare gli investimenti cinesi all’estero e per sfogare il surplus produttivo del gigante asiatico.

Anche la prospettiva di espandere le proprie esportazioni in Asia centrale e in Africa non sembra sufficiente a risvegliare a pieno l’appetito degli europei, che pur rappresentando meno del 10% della popolazione mondiale detengono già più del 50% della quota di mercato nei Paesi interessati dalla BRI. I decisori europei non si fidano. Forse credono di avere troppo da perdere, temono le conseguenze politiche e sociali del piano cinese e si fanno sempre più persuasi che scommettere nella competizione per l’export verso i mercati eurasiatici e africani rischi soltanto di danneggiarli. Ad aprile scorso, tutti gli ambasciatori a Pechino degli Stati membri dell’Unione europea eccetto uno – l’Ungheria – hanno quindi firmato un documento molto critico sul piano della nuova via della seta. Non senza buone ragioni, certificate anche attraverso approfonditi studi scientifici, hanno denunciato l’offensiva commerciale cinese che avrebbe come principale obiettivo quello di avvantaggiare le proprie imprese ostacolando e non certo rafforzando il libero commercio. Non si può ignorare, in effetti, che per quanto possano essere suonate sincere le parole di Xi Jin Ping a Davos in difesa dell’apertura e del libero mercato, Pechino ha ancora molta strada da fare prima di raggiungere il livello di apertura del mercato europeo nell’accogliere gli investimenti esteri e non brilla certo per trasparenza nella gestione di quelli che effettua fuori dai suoi confini.

Sorprende, tuttavia, che ai tempi dei cosiddetti sovranismi e protezionisimi – dell’America First e dei rigurgiti nazionalisti in molti angoli dell’Occidente – il dibattito sulla Belt and Road Initiative, rimanga in Europa appannaggio per pochi addetti ai lavori. E sorprende ancor di più che non siano proprio gli europeisti a sollecitare qualche supplemento di riflessione sulle preoccupazioni che le strategie di Pechino sollevano.

È vero infatti che se le prossime elezioni europee dovessero davvero essere concepite come una sorta di referendum sull’Europa, allora il fronte europeista avrebbe l’onere di trovare e mettere in luce i casi più concreti ed emblematici a dimostrazione dell’utilità dell’Unione europea e della necessità di rafforzarne la coesione e l’incisività sulla scena globale. È vero anche, come scrive Marco Piantini, che un fronte, per quanto unito, è destinato a perdere se non è capace di dividere quello opposto. Lo sa bene Pechino che, non a caso, per l’attuazione della BRI privilegia il piano bilaterale, evitando fintanto possibile il confronto diretto con il più grande blocco economico del mondo: l’Unione europea. Stimolando gli appetiti dei governi di piccoli e grandi Paesi dell’Eurasia, il gigante asiatico avanza a piccoli passi, ma raccoglie importanti frutti se si considera che l’89% dei progetti infrastrutturali finora avviati, saranno implementati da imprese cinesi. Questo rischiava di essere il caso anche della progettata linea ferroviaria Budapest-Belgrado, parte di un più grandioso piano di rivitalizzazione del collegamento su rotaia tra il porto ateniese del Pireo e l’Europa centrale. A intervenire a tutela delle imprese e dei lavoratori europei, però, non è stato il leader nazionalista magiaro Viktor Orban, ma le istituzioni di Bruxelles che hanno prontamente imposto la verifica delle normative europee sulle gare d’appalto e a tutela della concorrenza. Il governo nazionale sembrava disposto a dimenticarle pur di assicurarsi l’investimento cinese. In queste ultime settimane, l’Unione europea sta anche lavorando a una proposta di regolamento per il controllo degli investimenti da paesi terzi in settori strategici e per un meccanismo di cooperazione tra gli Stati membri e con la Commissione in riferimento agli investimenti che potrebbero incidere sulla sicurezza e sull'ordine pubblico. Non sono forse questi dei fatti da rivendicare con forza, contro la demagogia dei nazionalismi e in nome dei valori dell’europeismo di cui si intende continuare a farsi portatori?

È la paura il sentimento intercettato dalle forze nazionaliste e demagogiche per alimentare l’euroscetticismo e minare il processo d’integrazione europea: la paura della classe media europea, giustamente orgogliosa del patrimonio economico, giuridico e culturale che ha saputo affermare in Europa; la paura di chi teme, in questo mondo oggetto di importanti mutamenti, che tale patrimonio sia sempre più minacciato, se non già irrimediabilmente compromesso, dall’irrompere in scena di nuovi attori determinati a ricoprire ruoli da protagonisti. Ad essi si può rispondere che, settant’anni dalla posa della prima pietra, la costruzione europea può e deve tornare ad essere la casa che rassicura i cittadini dalle minacce, non soltanto economiche, che provengono da fuori. È l’europeismo il veicolo attraverso il quale si deve tornare a infondere coraggio nei cittadini, stimolando al contempo un’azione più ambiziosa delle istituzioni dell’Unione. Ma non è più tempo per la gestione dell’ordinario. Va abbandonata ogni tentazione di autoesaltazione di una certa “élite abituata a viaggiare”, preoccupata più dalle tariffe per il roaming che dall’individuazione di una strategia credibile per uno sviluppo economico e sociale capace di valorizzare una classe media sempre più in attacco di panico.

In questo senso, la nuova via della seta è un progetto al quale non può essere consentito di corrispondere con un approccio meramente difensivo. L’Europa di domani non può soltanto proteggerci, come promette il presidente francese Emmanuel Macron. Per soddisfare l’ambizione delle orgogliose società europee, l’Unione deve anche assumersi l’impegno di promuovere i suoi cittadini, specie i più giovani, per accompagnarli nella ricerca di nuove opportunità. Pertanto, se come dichiara Pechino i principi che viaggeranno sulla nuova via della seta saranno quelli dell’apertura, della trasparenza e dell’inclusione, allora l’Unione europea ha l’onore e l’onere di vantare apertamente la sua leadership nel tutelare questi valori al suo interno e nel promuoverli nel mondo.

In definitiva, si può affermare che la virtù innegabile del progetto One Belt One Road è che proponendosi di connettere società lontane e profondamene diverse come quelle europee, asiatiche e anche africane, obbliga tutti gli attori al confronto. E il confronto può certamente essere inquietante, soprattutto quando si teme di avere molto da perdere, come nel caso delle società europee, o si teme di dovere affrontare le proprie contraddizioni più profonde, come nel caso della Repubblica popolare cinese. Tuttavia, anche se obbliga a fare i conti con le difficoltà del presente e con gli errori del passato, l’incontro è il principale se non l’unico strumento per arricchire il futuro. Nella bufera dei grandi mutamenti globali, i cittadini europei sono certamente alla ricerca di un tetto per mettersi al riparo. All’europeismo è affidata la doppia sfida di convincerli, da un lato, che l’Unione europea è una protezione solida ed efficace per resistere alle intemperie e, dall’altro, che è tempo però di ritrovare le ambizioni perdute e di avventurarsi sulla strada dello sviluppo. Ebbene, questa strada potrebbe essere proprio la nuova via della seta, a condizione che sia presidiata da un’Europa unita e sufficientemente forte per aprire nuovi varchi all’intraprendenza dei suoi cittadini.