Completare il sogno europeo, battere il mondo chiuso

Marco Bentivogli
Segretario generale Fim-Cisl

Con 28 Stati membri, oltre 500 milioni di abitanti e un Pil di 15.300 miliardi di euro, l’Europa rappresenta la più grande economia del pianeta. Rispetto a Stati Uniti e Cina, gran parte dei cittadini europei gode di più ampie protezioni sociali, una lunga aspettativa di vita, un'istruzione migliore, più tempo libero, meno povertà e degrado, meno criminalità. L’Europa ha rappresentato e rappresenta ancora un gigantesco laboratorio dove ripensare il futuro dell’umanità secondo un modello di convivenza civile che punta sull’integrazione sociale e su uno sviluppo sostenibile. Eppure questo modello, che dal secondo dopoguerra ha garantito e ancora garantisce pace e prosperità a milioni di persone, è sotto attacco. E non da parte di entità esterne, ma dal suo interno: crisi finanziaria, Brexit, populismi, egoismi, ma anche incertezze dei suoi stessi sostenitori stanno minando le basi del progetto europeo.

Il sogno europeo contro l’odio e la paura

Gli anni in cui viviamo saranno ricordati come gli anni della paura. Paura di chi è diverso da noi, di chi non conosciamo e che pensiamo possa minacciare la nostra serenità. La paura ci costringe a restare nei nostri recinti, sempre più piccoli, con rapporti con gli altri sempre più corti e radi. La paura è “facile”. È facile alimentarla per secondi fini, politici o economici, tutt’altro che nobili o “protettivi”. La paura è il cemento più forte che tiene insieme tutte le insicurezze, ci fa scambiare le opinioni con le idee, il falso con il vero. “Costruire la pace”, invece, è tutta un’altra cosa: presuppone la conoscenza degli altri, il saper mettersi in discussione a partire dai nostri limiti, l’aprirsi soprattutto verso chi è diverso da noi ma che, proprio per la sua diversità, sarà capace di renderci più ricchi e migliori. Sono queste le sfide su cui l’Europa, che nei prossimi decenni vedrà la sua popolazione diminuire e invecchiare, può fornire al mondo intero un modello di accoglienza in cui i doveri di civiltà non siano visti come semplice buonismo. L’Europa non è tutta uguale, gli stessi squilibri demografici, le 3 I (innovazione, invecchiamento, immigrazione), non hanno gli stessi effetti, la Germania attrae giovani, l’Italia li fa scappare.

Mai come in passato, forse, il sindacato è chiamato ad una prova difficile. I valori sui quali poggia la costruzione europea sono anche i nostri valori. Si possono legittimamente nutrire dubbi sul fatto che le istituzioni comunitarie li abbiano sempre saputi incarnare al meglio, ma non si può negare che le radici siano comuni e che queste radici affondino nel processo di libertà, pace e cooperazione che faticosamente è stato intrapreso al termine del secondo conflitto mondiale con la fine delle dittature nazi-fasciste. L’Europa va completata. Il sindacato europeo non può non incarnare un programma europeista. Sembra ovvio ma il populismo sindacale su cui è atterrata da anni la sinistra ideologica sindacale ha consegnato il consenso politico dei lavoratori alle più forti spinte anti-europeiste.

Che fare, allora? Siamo chiamati – oggi come in passato – a umanizzare l’economia, il lavoro, la società. Per farlo dobbiamo, però, mettere in gioco i valori su cui si fonda il sindacato, rigenerare i luoghi di incontro per riportare gli odiatori a “esseri umani” che amino il prossimo, nel nome di una fraternità intesa come relazione liberatrice contro l’insicurezza e la paura. Il lavoro continua, infatti, ad avere un ruolo centrale poiché resta il crocevia tra la realizzazione di ognuno, la sostenibilità (industriale, finanziaria, sociale e ambientale) delle imprese e la rigenerazione, attraverso la cura dei beni comuni del territorio e delle relazioni di comunità.

Queste sono le ragioni per cui è necessario non farsi ammaliare dalle sirene del populismo. Resistere significa, però, interrogarsi sul perché anche tra le nostre fila i populisti abbiano riscosso tanto successo. Se la democrazia diretta, il reddito di cittadinanza, la retorica declinista sulla fine del lavoro si sono fatti largo con facilità è perché una parte della politica e una parte del sindacato hanno smesso di occuparsi dei nodi cruciali della vita delle persone, del lavoro in particolare, nascondendosi dietro a totem ideologici falsi e dannosi. È stata, insieme ad altri fattori, anche questa miscela di irresponsabilità e inconsapevolezza a generare il bug che ha poi infettato il sistema della democrazia rappresentativa. Eppure quella rappresentativa, benché debilitata, resta l'unica democrazia possibile, anche se ciò non esclude – anzi, in un certo senso lo impone – una sua profonda riforma.

Costruire il popolo, europeo

Ciò che mi sembra importante è non cedere alla retorica di chi vorrebbe imporre modelli alternativi. Vi sono due miti da sfatare: il primo è quello del “popolo”, inteso nell'accezione mitica in cui lo intendono i populisti di tutte le colorazioni. Questo “popolo” non esiste ma, proprio per questo, è molto pericoloso. L'identificazione col Capo ne fa una massa di manovra buona per tutti gli usi, ma non dobbiamo dimenticare che il plauso della folla non può essere l'unico metro con cui valutare la condotta degli uomini politici. È la differenza che passa tra democrazia autoritaria e democrazia liberale. Non è un caso che l'argomento principe impiegato da quanti, in questi anni, hanno sostenuto le ragioni di Orban, ma anche dal Governo Italiano contro quelle dell'Ue, della magistratura, degli altri poteri pubblici, è l'unzione del voto popolare, che metterebbe i politici di Governo al di sopra di qualsiasi autorità e di qualsiasi legge. In ogni ambito, se le regole valgono meno del consenso, quest’ultimo o è falso o si consolida senza vero mandato popolare.

Il secondo mito è quello della contrapposizione tra popolo ed élite. Una contrapposizione che, nella vulgata dominante, sarebbe frutto della disuguaglianza economica. Penso che questa sia una spiegazione rozza e fuorviante. Le disuguaglianze lette solo in base all’indice di Gini, basato sulla distribuzione dei redditi, da anni non spiegano tutto. In Italia, peraltro, con la quota di lavoro nero e di evasione fiscale, i dati sui redditi sono piuttosto fasulli. Che tutte le frizioni, le crisi, le migrazioni, siano scaricate sui ceti popolari è chiaro. Per questo serve una buona e regolata gestione dell'accoglienza. I problemi di integrazione e di contrasto alla criminalità si scaricano su periferie e ceti popolari, i negazionisti abitano in centro. Ma mentre gli omicidi negli ultimi 10 anni si sono dimezzati, c’è la corsa a dotarsi di un’arma o a rafforzare la posizione di chi compie legittima difesa, istituto che nel 99% dei casi ha reso possibile l’assoluzione degli imputati di omicidio o di altro reato, che talvolta hanno anche guadagnato anche una candidatura in politica.

La nuova geografia delle disuguaglianze

La bolla speculativa populista è tutta culturale. Le disuguaglianze si misurano sempre di più in termini di accesso al sapere, cultura, qualità e all’istruzione, partecipazione e corretta informazione, e sono correlate all’età, all’inurbamento, alla demografia, finanche al credo religioso. La povertà economica si manifesta come un'insufficienza di reddito, ma quel reddito che manca dipende da una carenza di capitali: capitali sociali, relazionali, familiari, educativi. E quindi se non si agisce su questi capitali, i flussi di reddito non arrivano, e se arrivano si disperdono, senza far uscire le persone dalla condizione di povertà e, non di rado, peggiorandola.

Non deve stupire se in questo contesto da anni si sente ripetere da politici e sindacalisti che è “tutta colpa della globalizzazione”. Il rifiuto della globalizzazione, non a caso, si accompagna quasi sempre alle critiche, spesso preconcette e non meditate, all'Europa. Forse è arrivato il momento di dire con forza che la globalizzazione ha liberato miliardi di persone dalla povertà e ha dimezzato ovunque la mortalità infantile. Ciò non significa tacere sugli squilibri che ha prodotto, ma ribellarsi alle menzogne di chi propone un impossibile ritorno al passato. Significa, soprattutto, difendere le ragioni della società aperta contro quelle dell'autarchia. La costruzione europea ha senso se vive nella cornice della libertà economica, delle libertà civili e dello stato di diritto, dell'apertura e non della chiusura. In caso contrario è destinata a perire.

Quando nel 1950 Robert Schuman propose di mettere in comune le produzioni di carbone e acciaio, i pericoli insiti nel nazionalismo economico e politico erano ben chiari alle classi dirigenti europee: le rovine fumanti della guerra stavano ancora davanti ai loro occhi a ricordarglieli. Certo, si respira un crescente senso di inadeguatezza riguardo alla legittimazione politica europea, c'è molto da cambiare. Basti pensare alla concorrenza, all’idea di verificare il peso dei vari trust nelle produzioni settoriali solo a livello continentale, quando in molti casi il trust più concentrato è costituito dalle importazioni asiatiche. Ma l’Europa non ha tutte le responsabilità che le si assegnano. Non è il problema, è la soluzione. Serve più Europa, senza retorica, serve tutta l’Europa possibile. Non può esistere un’Europa concentrata ancora prevalentemente sulla PAC. Occorre bilanciare, nella governance europea, il fiscal compact con il well-being compact (benessere sociale), cioè con un sistema di indicatori che segnali attentamente ai politici e a tutta la società l’andamento del benessere collettivo nell’Unione. La governance deve ampliare il ventaglio di indicatori di riferimento, affiancando ai parametri finanziari e di bilancio pubblico gli indicatori di benessere equo e sostenibile. Passare dal fiscal compact al well-being compact non significa necessariamente dimenticarsi della sostenibilità della finanza pubblica di breve e di lungo periodo, ma ricostruirla in un quadro più forte, nel quale possa crescere la della fiducia dei cittadini verso le istituzioni nazionali e dell’Unione sulla base di un progetto comune di pace e benessere.

La soglia di slancio

Le periferie esistenziali, gli ultimi, sono lontani dall’odio sui social e dal voto. Il popolo del rancore appartiene ad altri strati sociali ed ha un comune connotato culturale. I nostri figli sono più ricchi di noi in termini di opportunità. Allora “la retorica dell’impoverimento dei ceti medi” andrebbe affinata e osservata diversamente. Da un lato, i rancorosi sono spesso coloro che sono frustrati per l’immobilità sociale, da maledire non tanto perché impedisce l’accesso a migliori chance di vita, ma in quanto penalizza nella corsa con il vicino di casa a chi consuma di più; dall’altro, il loro investimento in cultura e formazione si riduce costantemente a scapito di beni status. Essere costretti a reprimere gli slanci verso un miglioramento sociale produce rancore. Il richiamo di una nuova politica, con un nuovo establishment, che ti assolve dalle tue responsabilità personali per spostarle contro il penultimo establishment, è fortissimo. “Ma allora non è colpa mia se non studio, se non mi sono mai impegnato in nulla!”

E così, nel nostro continente, i “valori tradizionali”, le versioni più secolarizzate delle religioni, i nazionalismi, le false notizie confortano e danno dignità a chi nella storia dell’umanità ha sempre temuto la libertà, l’emancipazione e il sapere. Per questo bisogna elevare la qualità della formazione e ricostruire un patto con il mondo dell’informazione. Non serve spargere a piene mani ottimismo, ma bisogna tornare ai fondamentali dell’informazione affinché si ricostruisca una narrativa diversa della condizione umana, non solo di “buon notizie” ma neanche dal loro sistematico occultamento.

Le elezioni europee

Alle elezioni europee del 2019 il progetto europeo arriva ammaccato. Proviamo, però, ad elencare le accuse che si muovono all’Europa: burocratismo, inefficacia decisionale, scarsa legittimazione popolare, eterogeneità delle condizioni nelle diverse regioni. In realtà, gran parte di questi fallimenti sono dovuti al ruolo preminente degli Stati nazionali e ad una scarsa cessione di sovranità alle istituzioni europee: questo processo si è realizzato solo in ambito di politica monetaria con la nascita della BCE, mentre le politiche fiscali e industriali, rimaste in mano ai governi nazionali, sono scarsamente efficaci senza capacità di investimento sovranazionale È come non far arrivare l’acqua all’orto e arrabbiarsi se le piante si seccano.

Tutte le critiche alla costruzione europea fanno emergere più paradossi. L’Unione è stata frutto di un lavoro di élite nazionali illuminate. Ora che l’Unione divide, la questione europea diventa popolare, acquista legittimazione. L’argomento dell’assenza di conflitti e della pace garantita dall’Europa ha molta presa sulle generazioni che hanno vissuto le guerre mondiali e il loro portato di morte e distruzione. Per le generazioni che hanno visto solo la pace e conoscono la guerra dalle all news l’argomento non è altrettanto forte. Per questo non si può stare nel mezzo, bisogna scegliere e motivare le proprie scelte tra le persone.

Completare l’Europa

Come ci ricorda Sabino Cassese, la costruzione europea è stata paragonata alla bicicletta: per non cadere bisogna continuare a pedalare.

Pur tra tante difficoltà, l’Unione, per stare in piedi, continua a pedalare sotto la pressione di molti interessi nazionali, estendendo anche la sua sfera di azione. Completare significa ridurre le disuguaglianze interne tra regioni, assumere il pieno controllo delle politiche economiche e fiscali, avere un sistema di difesa comune, eleggere direttamente il Presidente degli Stati Uniti d’Europa. Sarebbe necessaria l’integrazione dei sistemi formativi, delle infrastrutture materiali e immateriali.

L’Europa ha bisogno di essere realmente Unione e di pensare al mondo. Al continente africano, ad esempio, che oggi ha 1,1 miliardi di abitanti, nel 2100 ne avrà 4,4 miliardi. L’Europa qui è quasi inesistente, facendo poco e in ordine sparso con il risultato di lasciare il suo spazio naturale alla Cina o ad altri.

Anche gli accordi di libero scambio transoceanici andavano affrontati con minore superficialità, per prevenire la prevedibile e miope reazione antiglobalista. Inserire le clausole sociali e preservare legislazioni sociali e ambientali in un mercato più ampio sarebbe stata la strada migliore. Non credo che nell’alternativa sovranista, fatta tutt’al più di accordi bilaterali, ci sia maggiore spazio per la sostenibilità. Quegli accordi dovevano essere il prologo di un mondo aperto, sostenibile, libero e solidale. Il “No e basta” non è servito a nulla e, anzi, ora rischiamo di essere il vaso di coccio nel mondo protezionista dei dazi. Non a caso Putin e Trump hanno nel mirino l’Europa.

Un nuovo pensiero del lavoro, antidoto alla società chiusa

L’Europa deve essere il luogo dove sperimentare, costruire un nuovo pensiero post novecentesco del lavoro in una dimensione d’imprese in cui la persona sia centrale.

Ridefinire il welfare sulle nuove tendenze demografiche, ripensare i lavori fuori dai paradigmi e dalle convenzioni giuridiche del ‘900 può liberare energie impensabili. Brexit, a Ovest, Erdogan a Est sono due modalità in cui il sovranismo ha dimostrato nella pratica quanto sia nocivo per i lavoratori. Basare la sovranità sulla stampa di banconote, è un’idea medioevale di nazione, specie in epoca di blockchain e criptovalute. Siamo alle porte del secondo balzo in avanti dell’umanità e la tecnologie offrirà una capacità di abitare in modo più intelligente il pianeta per chi saprà cogliere la sfida su campo aperto.

Progettare lavori, opere, ecosistemi a #umanitàumentata rilancia un’impresa più forte come luogo di costruzione condivisa del futuro. Il nostro continente può essere lo spazio di realizzazione di queste nuove architetture sociali, economiche, industriali. Ma servono gruppi dirigenti, elite in ogni ambito con queste visioni e capacità.

Certo, servono elite, preparate, coraggiose e combattenti ma senza il nuovo popolo europeo, il mondo del lavoro continuerà a non cogliere la dimensione continentale come un sogno bello e conveniente.

La nuova statualità sovranazionale va ricostruita con un nuovo patto Cittadino-Stato basato sulla partecipazione dei lavoratori alle scelte strategiche di impresa e sullo “scambio contributivo sostenibile” che coinvolga tutti i cittadini. Se vogliamo trasformare lo spirito di rabbia, risentimento e rivincita in energia positiva, ogni persona deve avere un ruolo, uno spazio pubblico in cui offrire il proprio contributo, con lavoro, impegno civile e partecipazione a migliorare l’esistente e a sentirsene responsabile. Dall’irresponsabilità passare alla partecipazione sarebbe la vera svolta per metterci io il passato alle spalle.

L’Europa è stato un progetto nella cui sala macchine hanno lavorato, storicamente, leadership centrali agli schieramenti politici, come Adenauer, Schuman, De Gasperi, poi Kohl, Prodi.  Tutti e 4 cattolici, i primi tre, uomini di frontiera, perseguitati dalle dittature nazifasciste.

Il quadro è cambiato, le nuove generazioni, per fortuna non hanno conosciuto la guerra e la destra ha, in gran parte d’Europa, scelto il sovranismo. Per la sinistra c’è un bivio, non irrilevante, fare come Corbyn, inseguire i populisti nei loro progetti più miopi o abbandonare, tutta la retorica dell’ “Europa si, ma” e dare tutte le proprie energie migliori al completamento del sogno europeo.

Non vi sono solo ragioni “ideali” per seguire con determinazione la seconda strada, tornare tutti a pedalare per il sogno europeo è conveniente ed urgente. In questa fase, le sfumature, gli atteggiamenti rinunciatari sono più pericolosi della demagogia. L’Europa è la piattaforma di impulso di un mondo aperto libero, sostenibile e solidale, l’alternativa a questi valori sono dall’altra parte. Bisogna scegliere.