Come farsi (ri)conoscere dai cittadini? Occupandosi di loro: un welfare europeo per ripartire

Francesco Munari
Professore ordinario di diritto dell’Unione europea, Università di Genova e “adjunct professor” nella stessa materia presso la LUISS-Guido Carli.

La riflessione di Marco Piantini e le sue sette questioni su cui confrontarci assomigliano in realtà a una proposta di agenda politica in attesa di essere raccolta e sviluppata.

È un tentativo meritorio, e soprattutto stimolante: non solo per coloro che hanno a cuore l’Europa, ma anche per chi crede di poterla usare a proprio piacimento, o cerca di lucrare tornaconti politici nell’opporsi alle istituzioni europee e proporre nuove visioni dello stare insieme o più semplicemente “coabitare l’Europa”.

Dall’angolo visuale del professore universitario che da sempre studia regole e politiche europee, fa ricerca sui temi europei e da anni si sforza di insegnare ai propri studenti cosa sono l’Unione europea e il suo diritto, trovo particolarmente interessanti le riflessioni sulla capacità di spiegare al cittadino comune i successi dell’Europa (terza questione), e sulla possibilità di progredire – anche a velocità diverse - con l’integrazione europea secondo i modelli finora tradizionalmente immaginati, e cioè mercato interno e unione monetaria/fiscale (quarta questione). Proverò quindi a descrivere brevemente il mio punto di vista su tali due questioni, iniziando dalla conoscenza e dalla consapevolezza dell’opinione pubblica sui risultati in termini di diritti che l’Unione europea (e prima di essa, la Comunità) ci hanno consentito di raggiungere: ebbene, non ho esitazioni nell’affermare che siamo largamente insufficienti.

Siamo insufficienti nel rendere consapevoli i cittadini innanzitutto del fatto che la cooperazione economica alla base dello stare insieme in Europa (a partire dalla Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio) ha garantito ai popoli dell’Europa il più lungo periodo di pace della propria storia ultra-millenaria: basti pensare che il precedente più lungo fu la famosa pax romana di Ottaviano Augusto, durata meno della metà di quella che, dal 1945 a oggi, caratterizza il nostro continente. Un periodo di pace così lungo da rendere la guerra, i suoi orrori e le sue tragedie come un qualcosa di “altro” da noi, di onirico, di irreale, anzi, di irripetibile a casa nostra. La stessa guerra degli altri, quella che si combatte ancora in molte aree del mondo, appare così, come tante altre tragedie che vediamo quotidianamente scorrere sui social o sui media, un evento che non ci riguarda, un video che si può interrompere quando decidiamo di dedicare la nostra attenzione ad altro. E di questo successo l’integrazione europea è vittima ormai per la quasi totalità degli europei, quelli cioè nati dopo il 1945, che non avendo vissuto quella terribile esperienza la ritengono una reliquia del passato.

Lo stesso vale per la democrazia, la quale è retta (anche) dalle regole che, nel tempo, l’Europa si è data: quelle stesse regole che, pur spuntate a causa di un’unanimità impossibile da trovare, oggi comunque consentono al Parlamento europeo di ricordare all’Ungheria che il sistema democratico non è negoziabile per gli Stati che vogliono restare a pieno titolo dentro la casa europea e il processo decisionale ad essa relativo. Un monito per ora politico, ma fondamentale, se ci si guarda intorno e si vedono Stati – anche molto vicini ai nostri confini, come la Turchia di Erdogan o la Russia di Putin - che non hanno il “paracadute” col quale, sobriamente, gradualmente e quasi impercettibilmente, l’Unione europea ha dotato i nostri ordinamenti.

Che tutto questo sia nato da regole economiche, inizialmente il vecchio mercato comune, e oggi il mercato interno, non è affatto sorprendente, né, come ci ricorda Marco Piantini, deve essere vissuto come “cattivo”: ancora una volta, pensiamo all’indietro nel tempo e all’immediato aftermath successivo al secondo conflitto mondiale: memore della sciagurata scelta di punire la Germania col Trattato di pace di Versailles, fu il Dipartimento di Stato statunitense, in occasione della Conferenza di Bretton Woods, a teorizzare che “trade conflicts breeds noncooperation, suspicion, bitterness. Nations which are economic enemies are not likely to remain political friends for long”. E il Piano Marshall altro non fu se non l’applicazione pratica di questa teoria. Chi ancora oggi indulge a sminuire la portata del “mercato unico” come strumento puramente economico, buono per l’Europa dei mercanti e non dei cittadini, ignora – o dimentica – il fondamentale contributo della cooperazione economica alla pace e fratellanza tra popoli, e all’emersione dei diritti politici, civili e sociali che esse sono in grado di generare. Del resto, l’esattezza di quanto sopra è dimostrata dalla giurisprudenza della Corte di giustizia, e dalla teoria da essa sviluppata in ordine all’esistenza e alla tutela dei diritti fondamentali in ambito (allora) CEE, quali principi generali di diritto comunitario. Eravamo, lo ricordo, agli inizi degli anni ’70 del secolo scorso, quando esisteva solo il mercato comune; l’Unione monetaria e la cittadinanza europea avrebbero visto la luce vent’anni dopo.

Non abbiamo fatto abbastanza per farlo capire? L’ho già detto: è certamente così. Abbiamo mancato, e nettamente, in questo. Nella comunicazione abbiamo perso, scioccamente inseguendo i temi emergenziali su cui populisti, sovranisti o più semplicemente demagoghi hanno costruito e stanno costruendo i propri successi in questi anni. Certo, la sfida è difficile: è quella di contrapporre una visione e un percorso rispetto alla memoria a breve termine, alla dinamica dell’usa e getta che mina la capacità critica delle persone e delle democrazie, e rispetto alla quale dobbiamo ancora capire l’uso dei social networks onde evitare i rischi, e i danni irreversibili alle nostre società e ai nostri valori, che essi appaiono in grado di generare.

Ma non c’è soltanto una mancata comunicazione. Essa infatti coesiste anche con la mancata percezione dei bisogni delle persone più deboli, meno capaci di “fare da soli” per formarsi e mantenere robusta una coscienza critica coerente coi valori che i Padri fondatori dell’Europa vollero esprimere. In questo, è indubbio, sono stati inadeguati i leader politici progressisti che pure, per molti anni, hanno governato il mondo sviluppato, ma inadeguate sono state anche le “élites” intellettuali ed economiche: invece di agire per farci perdonare dagli altri la fortuna che abbiamo avuto, ci siamo distaccati dai problemi del quotidiano di tanti nostri concittadini, non abbiamo gestito la globalizzazione dei commerci e le crescenti disparità economiche, abbiamo nei fatti lasciato autostrade aperte alla protesta e al rifiuto di un mondo che, rispetto ai Trente Glorieuses, vedeva progressivamente sgretolarsi l’idea di un costante miglioramento delle condizioni e speranze di vita di tutti. Questo processo è poi esploso con la crisi del 2007: così, salve rarissime eccezioni, alla solidarietà si è contrapposta una tragica miopia politica anche nelle istituzioni europee, oltreché in molte cancellerie nazionali, ivi incluse (va detto senza ipocrisie) quelle all’interno di Stati fondatori, che avrebbero dovuto – e dovrebbero tuttora – essere assai più saggi e generosi rispetto ai propri partner europei, e appaiono invece un po’ troppo legati al proprio particulare e ai benefici anche elettorali di breve periodo che se ne possono trarre. Alla cooperazione si è sostituita una “competizione”, i cui esiti negativi abbiamo cominciato a vedere fin troppo bene, da ultimo (e voglio sottolinearlo, da ultimo) in Italia.

Ripartire da queste considerazioni è quindi essenziale, per capire come costruire una nuova visione di Europa. E questo mi porta alla quarta questione posta da Marco Piantini, la seconda su cui mi intratterrò, nella quale mi pare intravedere una sfida al pensiero comune dell’Europa a più velocità. Qui il giurista deve essere più cauto (mentre il pensiero politico può essere più creativo), perché le regole che abbiamo prevedono questa Europa, e in alcuni campi fondamentali essa è stata praticata, con innegabili successi: dall’euro alla circolazione dei cittadini.

La Storia ci chiede di unire gli Stati europei, e non di mantenerli separati, e l’integrazione è certamente più agevole tra entità omogenee. Questa è l’essenza reale dell’Europa a più velocità, e in tale quadro allora il discorso è tutto interno, ed è una campana che suona per l’Italia. Il nostro Paese si pone troppo poco il quesito dei costi della non Europa per noi, e dei vantaggi che altri Stati membri, silenziosi nelle parole ma assai più chiari nei fatti, stanno cercando di trarre dall’Aventino nel quale l’Italia si sta mettendo. Eppure l’esperienza Brexit e la divisione delle spoglie europee che il Regno Unito lascerà agli altri sono sotto gli occhi di tutti. E non pensiamo che condividere il mercato interno senza il resto (ammesso che ci si riesca, e non sarà semplice), proteggerà i britannici. Mutatis mutandis, per noi i possibili danni di una progressiva uscita dall’orbita degli Stati più coesi saranno ancor più rilevanti, per le debolezze interne dell’Italia, e perché a quel punto non avremo semplici concorrenti, ma veri e propri avversari, che utilizzeranno tutti gli spazi possibili per emarginarci ancor più, onde ottenerne i massimi vantaggi: dalle imprese al lavoro, ai servizi, agli investimenti.

Quindi dico l’ovvio se insisto che cambiare si può e si deve, ma dall’interno e non chiamandosi fuori. Anche perché temo che sia un’illusione l’idea che tutti gli altri riempirebbero fazzoletti di lacrime per la nostra dipartita, o farebbero sforzi immani per trattenerci: l’impressione è quella che l’Italia, forse più di tutti gli altri, deve quotidianamente meritarsi di essere a pieno titolo membro dell’Unione, e ha assai minori rendite di posizione di cui godere rispetto a questi ultimi. La dimostrazione è il caso Al Jafari, di pochi mesi fa: la Corte di giustizia aveva un’occasione irripetibile per superare i limiti del regime di Dublino, chiarendo che il principio del Paese di primo ingresso non vale in caso di migrazioni eccezionali, come quelle che abbiamo conosciuto negli ultimi anni. Così le aveva suggerito di decidere l’avvocato generale, ma la Corte non ne ha avuto il coraggio. Il giudice è un giudice, e non fa politica; ma può cambiare le regole, anche quelle più importanti. Siamo sicuri che l’enorme rilievo politico che quella decisione avrebbe avuto non ha avuto peso nella scelta della Corte? Io no. Ma se di questi tempi, chiosando Machiavelli, anche la Corte ha smesso le vesti del leone e si è fatta volpe, temo sia velleitario pensare di poter pretendere scelte dirompenti dagli altri partner europei.

Ciò non implica subordinazione o rinuncia a far valere le nostre posizioni: ma esse saranno ancor più fortemente ascoltate nella misura in cui sapremo ascoltare le ragioni e gli argomenti (anche sbagliati) degli altri, e proporremo soluzioni inclusive, e non divisive.

Torniamo allora alle proposte sul tavolo per la riforma dell’Unione, e vediamo se sia possibile un’agenda diversa dalla riforma dell’Unione Monetaria e dall’Unione fiscale. È indubbio, e Marco Piantini ha ragione, che queste riforme non siano all’orizzonte, né appaiano probabili a breve. Certo nessuno ha il coraggio di proporre passi avanti prima della nuova legislatura europea. Ma qualche proposta inclusiva, e alternativa, magari si può enfatizzare: ad esempio raccogliere la sfida, che anche altri propongono nel blog innestato da Marco Piantini, di un’Europa sociale più forte. Per parlare più semplicemente ai cittadini europei abbiamo bisogno di far sentire che l’Europa c’è: e per farlo seriamente, abbiamo necessità di un bilancio europeo più ampio e coraggioso, nel quale siano specificamente destinate risorse per le persone più deboli, e per i loro bisogni, facendo capire che l’Europa non è quella dei banchieri, né degli eurocrati, ma è quella vicina ai cittadini. Più politica sociale targata Europa, e finanziata da tutti gli Stati, potrebbe consentire un forte recupero di immagine dell’Unione, risolvendo altresì problemi dei singoli Paesi, come il nostro, impegnati a ripensare ampie porzioni nel nostro welfare. Naturalmente, le dotazioni di bilancio europee andrebbero riprogrammate e aumentate: ma senza più il Regno Unito, l’ipotesi è meno ardua. Ed è un’iniziativa di riforma dell’Europa che – pur non agevole – potrebbe comportare importanti trasferimenti di competenze verso un possibile scenario di diritti sociali europei, avvicinando quindi i cittadini di tutta l’Unione, lasciando per ora da parte quelle riforme sulle quali, piaccia o meno, le prospettive appaiono difficili e le contrapposizioni ancor più nette.