Perché malgrado tutto l’Europa ci conviene

Ferdinando Nelli Feroci
Ambasciatore, Presidente dell'Istituto Affari Internazionali (IAI), interviene al dibattito sul futuro della UE e dell'europeismo. E' stato rappresentante permanente d'Italia presso l'Unione europea a Bruxelles (2008-2013), capo di gabinetto (2006-2008) e direttore generale per l’integrazione europea (2004-2006) presso il Ministero degli Esteri.

Con il suo articolo/appello dei primi di luglio, Marco Piantini ha sollecitato quella specie apparentemente in via di estinzione che sono gli europeisti a ritrovare le ragioni profonde di una fiducia nel progetto europeo che oggi sembra diventata una merce sempre più rara. Piantini ci ha chiesto di indicare percorsi idee e progetti per rilanciare un’idea di Europa che torni a scaldare i cuori di opinioni pubbliche nazionali scettiche e disilluse quando non apertamente ostili, e che sia in grado di mobilitare consensi e sostegni oltre a legittime critiche. Se non una “mission impossible” certamente un’operazione complessa e dagli esiti incerti in questo contesto

Dopo il suo articolo sono seguiti numerosi contributi, tutti di ottima qualità. Difficile quindi intervenire in questo dibattito senza correre il rischio di ripetizioni e magari di qualche contraddizione. Ma credo che valga comunque la pena di provarci;  anche se  con la consapevolezza che chi scrive ha il vizio di origine di avere per molti anni avuto a che fare con l’Unione Europea, oltre che per scelta ideale anche per motivi professionali.

Sulle origini della crisi di fiducia nel progetto europeo è stato scritto molto e non sarebbe agevole tornare in profondità sull’argomento nelle poche righe che seguono. In sintesi non sono del parere che questa crisi dipenda dal tramonto dell’utopia federalista o dal tradimento che fu perpetrato a Maastricht nei confronti del metodo comunitario. Non credo che la crisi di fiducia abbia a che fare con le deficienze del complesso apparato istituzionale dell’Unione Europea, o con il trasferimento di competenze da istituzioni sovranazionali a istanze più marcatamente espressione dei governi nazionali. Certo qualcosa si dovrebbe fare se non altro per migliorare trasparenza e legittimazione democratica dei processi decisionali dell’Unione Europea, per rispettare meglio i principi di sussidiarietà e proporzionalità che pure figurano a caratteri cubitali nei Trattati. Ma nella consapevolezza che in questo contesto politico eventuali iniziative di revisione dei Trattati, o di rifondazione della architettura istituzionale dell’Unione, sarebbero destinate ad un clamoroso fallimento producendo come unico risultato di svelare profonde differenze e diffidenze.

Né sono del parere che responsabile della crisi di fiducia attuale sia stato il grande allargamento del 2004, con l’adesione all’Unione europea di Paesi che provenivano da esperienze di storie nazionali molto diverse e segnati da una comprensibile riluttanza nei confronti dell’idea di accettare trasferimenti di sovranità nazionali. Quell’allargamento ha sicuramente aumentato il tasso di disomogeneità fra gli Stati membri e complicato i meccanismi decisionali. Ma era un processo politicamente inevitabile, perché era ampiamente dovuto a quella parte di Europa che era rimasta tagliata fuori da un processo che aveva garantito al resto d’Europa progresso economico e sociale, tutela di diritti e libertà fondamentali e democrazie rappresentative legittime e funzionanti. E non a caso ha di fatto coinciso con la fine delle guerra fredda e di un’Europa divisa in blocchi.

La crisi del progetto europeo è in parte l’inevitabile conseguenza di un ricambio generazionale. Con la progressiva scomparsa della generazione che aveva vissuto la Seconda Guerra Mondiale e considerava la pace in Europa come un obiettivo strategico, è venuta meno quella fascia di cittadini europei che aveva identificato il progetto di integrazione economica come lo strumento più idoneo per realizzare pace e stabilità nel continente. I giovani europei hanno una memoria molto vaga dei danni del nazionalismo. E considerano come un dato acquisito e scontato quella costruzione europea, che, malgrado tutto, ha garantito sessanta anni di pace nel Vecchio Continente, con il risultato che pace e stabilità in Europa da sole non sono più in grado di legittimare la costruzione europea presso opinioni pubbliche che chiedono comprensibilmente di più.

Ma mancanza di fiducia nel progetto europeo è soprattutto la conseguenza delle difficoltà emerse in Europa nella gestione della drammatica crisi economica e finanziaria del 2008/ 2009 e degli anni seguenti, e della successiva crisi dei flussi migratori: due fenomeni profondamente diversi fra loro ma accomunati dalla condivisa capacità di far emergere la percezione di debolezze e insufficienze del progetto comune europeo.

La crisi economica e finanziaria ci ha colti impreparati e ha evidenziato le lacune del governo della moneta comune. Un unione economica e monetaria concepita all’origine non solo come un necessario completamento del mercato interno, ma anche come un ambizioso progetto politico, ha mostrato i suoi limiti. Ora la fase peggiore della crisi è alle nostre spalle. L’Euro ha retto la prova e la sua “governance” è stata migliorata. Molte misure sono state adottate negli anni delle crisi per fronteggiare l’emergenza ed evitare il collasso dell’Euro. Ma molto resta ancora da fare, anche perché gli effetti della crisi si fanno ancora sentire. C’è la ripresa; ma non è equamente distribuita e tarda a produrre effetti sull’occupazione. Restano ancora diseguaglianze eccessive, e seri problemi di distribuzione della ricchezza e di inclusione sociale. E soprattutto le performances dei singoli Paesi restano molto differenziate, a conferma delle responsabilità nazionali nella creazione delle condizioni per la crescita e l’occupazione

L’arrivo alle nostre frontiere esterne di migranti e richiedenti asilo, un fenomeno non nuovo e soprattutto non esclusivamente europeo, ha ugualmente messo alla prova la capacità dell’Unione europea di trovare risposte alle preoccupazioni dei cittadini. Sia pure con ritardo, l’Unione ha definito programmi di collaborazione con i Paesi di origine e di transito dei migranti. Ma ha fallito quando si è trattato di tradurre in termini operativi il principio di solidarietà fra Stati membri e un minimo principio di condivisione degli oneri. Non certo per colpa delle istituzioni comuni; ma piuttosto dei governi nazionali che hanno preferito difendere le frontiere interne e rifiutare forme anche solo simboliche di ripartizione degli oneri che avrebbero consentito una gestione meno caotica del fenomeno. E’ stato fin troppo facile in queste circostanze e anche in questo caso chiamare in causa l’Europa come principale responsabile della mancata gestione di una presunta crisi migratoria, ignorando che le principali responsabilità erano degli Stati e dei Governi nazionali.

Ma la crisi di fiducia nell’Europa è anche il risultato di martellanti campagne di forze politiche che hanno individuato nell’Europa un comodo e fin troppo facile capro espiatorio, e che hanno trovato più agevole e pagante in termini di consensi scaricare sull’Europa carenze e responsabilità di una “governance” nazionale spesso inadeguata di fronte alle complessità del governo della globalizzazione. Uno “sport” cui si sono dedicate con assiduità e impegno non solo le forze politiche che oggi definiamo populiste, ma anche nel recente passato forze politiche che pure rivendicavano una cultura politica europeista .

Se queste sono le premesse da dove ripartire? In primo luogo dalla constatazione che,  malgrado tutte le carenze della costruzione europea e malgrado l’insoddisfazione crescente nei confronti dell’Unione europea, vagheggiare oggi un ritorno allo “stato nazione” come unica sede di legittimazione democratica e come unica istanza di autentica tutela degli interessi nazionali, è al tempo stesso velleitario, pericoloso e anacronistico. Velleitario perché neppure il più grande e ricco dei Paesi europei sarebbe oggi in grado da solo di muoversi con autorevolezza sullo scenario internazionale e confrontarsi da pari con le grandi potenze globali. Figuriamoci poi una media potenza come l’Italia o i Paesi più piccoli. Pericoloso perché, come  la storia europea del secolo scorso (troppo spesso dimenticata) dovrebbe ricordarci,  un nazionalismo non regolato da istanze sopranazionali può produrre guasti incalcolabili. Anacronistico infine perché sembra francamente molto azzardato ipotizzare che singoli Stati da soli (a meno che non siano gli USA o la Cina) riescano a gestire con successo fenomeni complessi come il commercio internazionale, la lotta al cambiamento climatico, il contrasto del terrorismo internazionale, la non proliferazione di armi di distruzione di massa, la cyber-security, o il rapporto con i giganti del web.

Se si parte da queste premesse è inevitabile riconoscere che l’Europa non solo ci conviene, ma anche che è proprio all’interno di una dimensione europea che potremo difendere meglio i nostri interessi nazionali. Certo dovremmo saper stare in Europa; dovremmo giocare la nostra partita in Europa molto meglio di quanto non siamo stati capaci di fare finora.

Per troppi anni l’Italia è apparsa caratterizzata da una curiosa schizofrenia rispetto alla sua collocazione in Europa. Ad un apparentemente condiviso atteggiamento di sostegno a forme sempre più avanzate di integrazione (lo testimonia la linea sostenuta dai Governi italiani nelle varie iniziative di revisione dei Trattati dall’Atto Unico al Trattato di Lisbona), e ad un diffuso europeismo di facciata, ha troppo spesso corrisposto una insufficiente capacità di incidere sui processi decisionali europei, una ricorrente difficoltà a creare reti di alleanze e presenza nelle istituzioni europee, una cronica difficoltà ad adattare l’apparato del governo e delle amministrazioni alla sfida europea, una conseguente carenza sistematica nel partecipare alla fase ascendente di regolamenti e direttive comunitari, un costante ritardo nell’adattare la legislazione nazionale a quella europea, una tendenza a ignorare o a violare il diritto europeo che per lunghi anni ci ha fatto figurare in testa alla classifica per procedure di infrazione e sentenze di condanna della Corte di Lussemburgo, ed infine una colpevole incapacità di utilizzare in maniera efficace i fondi europei (penso soprattutto ai fondi strutturali e alle responsabilità delle Regioni destinatarie di questi fondi).

Forse questa schizofrenia spiega, almeno in parte, il fenomeno di un Paese il cui tasso di affezione al progetto europeo è sceso a livelli preoccupanti, di un Paese euro-entusiasta solo qualche anno fa improvvisamente diventato uno dei Paesi più euroscettici.

Oggi però ci troviamo di fronte ad un attacco senza precedenti al progetto europeo che è probabilmente anche ispirato dall’esterno, da grandi potenze interessate per motivi geo-strategici, a indebolire l’Unione europea. Ad un Paese come l’Italia, media potenza caratterizzata da una modesta capacità di proiezione internazionale, da persistenti debolezze strutturali, e da un’economia fin troppo dipendente dalle esportazioni, non conviene assecondare questa contestazione all’Europa.

A noi l’Europa conviene perché costituisce un solido quadro di riferimento per la difesa di valori e principi irrinunciabili e non negoziabili che sono alla base della nostra nozione di democrazia. Conviene perché la nostra economia ha bisogno di un grande mercato interno su scala continentale; perché abbiamo bisogno di una moneta comune, necessario completamento del mercato interno. Ma ci conviene anche perché abbiamo bisogno, di principi comuni in materia di inclusione sociale e creazione di lavoro, di regole condivise in materia di concorrenza e aiuti di Stato, di un quadro di riferimento condiviso che guidi ispiri i processi di modernizzazione del Paese e ci consenta di affrontare i maniera più efficace le complessità della globalizzazione.

Dovremmo però essere capaci di vedere nella dimensione europea una straordinaria opportunità piuttosto che un groviglio di regole e vincoli, un moltiplicatore piuttosto che un limite della nostra sovranità. Invece di ipotizzare improbabili Piani B e vagheggiare un abbandono dell’Euro, dovremmo impegnarci con proposte costruttive  per una riforma della “governance” della moneta comune e per il completamento dell’unione bancaria che corrispondano a nostri interessi. Invece di contestare sistematicamente regole in materia di disciplina di bilancio, a suo tempo condivise anche da noi e concepite anche a tutela della sostenibilità del nostro ingente debito pubblico, dovremmo insistere per un grande piano europeo di investimenti pubblici in infrastrutture materiali e immateriali. Invece di minacciare altrettanti improbabili veti sul bilancio dell’Unione, dovremmo pazientemente individuare quale tipo di spesa o quale nuova fonte di entrate ci conviene sostenere. Invece di lamentarci per essere stati lasciati soli nella gestione dei flussi migratori accusando l’Europa di insensibilità, dovremmo scegliere gli alleati più utili per ottenere più solidarietà. Invece di polemizzare quotidianamente con presunti euro-burocrati, dovremmo cominciare a riflettere su come posizionarci in vista del rinnovo delle più alte cariche nelle istituzioni dell’Unione. In altre parole dovremmo puntare su un’Europa più unita, più autorevole e magari più solidale come una opportunità per l’Italia, chiarirci le idee su cosa ci aspettiamo dall’Europa, fissare obiettivi realistici e ottenibili, attrezzarci per sostenerli con competenza e credibilità nelle sedi dove si assumono le decisioni, e costruire un sistema di alleanze che corrisponda a verificati interessi nazionali.