Né euroscettici né eurobeati

Giuseppe Morabito
Ambasciatore, è stato Direttore Generale Africa del Ministero Affari Esteri, ed é stato Ambasciatore a Beirut e a Lisbona.

Accolgo volentieri l’invito che mi è stato formulato, per fare alcune brevi osservazioni. Marco Piantini parla di “limiti” dell’europeismo. Io parlerei, parafrasando quello che ebbe a dire Enrico Berlinguer sulla Rivoluzione d’Ottobre, della “fine della spinta propulsiva” del progetto europeo dei Padri fondatori. Credo debba essere questo il punto di partenza di ogni riflessione sul futuro dell’Unione Europea. Oltretutto i Padri fondatori appartenevano ad una ristretta cerchia di Paesi e, aggiungo, di forze politiche, che non rappresentano più l’Europa di oggi. Fin troppo facile ricordare poi che l’Europa è molto cambiata da quella nata dalle ceneri della Seconda Guerra Mondiale: la fine del confronto Est - Ovest con la caduta del muro di Berlino, l’allargamento, la globalizzazione (ora forse più subita che governata), il diffondersi come una metastasi del terrorismo, l’emergenza del cambiamento climatico e la crescita delle ineguaglianze. La crisi dei partiti tradizionali e dello stesso modello di partito al quale eravamo abituati anche noi italiani ha reso ancora più complicata la situazione, palesando una crisi di leadership europea impensabile fino ad alcuni anni fa.

Una ricorrente figura retorica è quella che l’Unione Europea  avrebbe garantito settanta anni di pace. È vero, e non va certo dimenticato, che una ventina di anni fa una guerra sanguinosa ha devastato i Balcani, ai confini dell’Unione, ma a quell’epoca fuori dall’Unione. Ma crediamo davvero che ci sia un francese, un italiano, un britannico, un tedesco, nati nel secondo dopoguerra, che abbia mai pensato che sarebbe stato costretto a combattere una guerra civile europea come suo padre e suo nonno? Figuriamoci i giovani di oggi che oltretutto non hanno memoria storica. La domanda da porsi è piuttosto un’altra: l’Europa di oggi è portatrice di pace nel mondo? Esporta pace, stabilità e sicurezza?  Basterebbe il caso della Libia di Gheddafi per smentirlo. Fra l’altro questo è un atroce paradosso perché le conseguenze di quell’intervento (quando avremo il coraggio di fare un serio esame di coscienza?) si pagano ancora oggi con le pericolosissime spinte disgregatrici della UE che ha generato. Per non parlare poi della guerra dell’Iraq, e della seconda in particolare, alla quale i Paesi europei non sono stati in grado di opporsi e che ha aggiunto instabilità ad una regione già instabile, fomentando per di più il terrorismo confessionale.

La realtà è che purtroppo la cultura della pace ed il rifiuto della violenza (la violenza non genera forse altra violenza?) non hanno ancora veramente attecchito in Europa, e questo dovrebbe farci riflettere. Se anche poi i Paesi europei non si fanno per fortuna più la guerra tra di loro, un aspetto preoccupante è che l’Unione Europea sta perdendo la sua spinta unificatrice e solidale - sia pure una solidarietà frutto di compromesso, del resto nessuno è solidale per motivi etici - per rivelarsi paradossalmente una fonte di tensione permanente tra gli Stati membri, minando per questa via la sua ragione d’essere.

Di fronte a questa situazione che fare allora? Io penso che si debba ribaltare la prospettiva nella quale spesso ci si pone: non discutiamo di quale modello di Europa vogliamo, ma a che tipo di società aspiriamo, esercizio oggi più facile e meno divisivo rispetto all’epoca antecedente al crollo del Muro di Berlino. Non vogliamo forse una società basata sull’economia sociale di mercato? Non vogliamo un’economia che cresca a ritmi più sostenuti e crei più posti di lavoro? Non vogliamo una maggiore coesione sociale, tenuto anche conto che l’equilibrio della ricchezza tra Stati membri sta cambiando? Non abbiamo interesse a combattere il cambiamento climatico, evitare dannose e pericolose guerre commerciali, dare maggior sicurezza ai cittadini? 

È a partire da questi temi e dalle risposte che si vogliono dare che bisogna vedere se la UE può essere la soluzione, e non il problema, e in che modo. Dobbiamo superare però in primo luogo una sorta di schizofrenia che ci fa vedere ed affrontare separatamente ciò che riguarda la politica interna dalla politica europea. Nel fare questo dobbiamo ripartire dal nostro “ interesse nazionale “, questa orribile parola sdoganata qualche anno fa, se non ricordo male, da Marta Dassu’ (e non poteva che essere sdoganata da sinistra, così come lo storico Claudio Pavone e il giornalista Giampaolo Pansa hanno dato una interpretazione non tradizionale del periodo 1943 - 1945 della nostra storia). Il nostro interesse nazionale non è ovviamente contrapposto a priori alle istanze di Bruxelles; del resto se fosse così sarebbe arduo spiegare perché dobbiamo restare un Europa. D’altronde, non ci lamentiamo continuamente che a Bruxelles siamo poco presenti nelle istituzioni comunitarie e nella fase ascendente della normativa comunitaria? Perché lo facciamo se non abbiamo interessi nazionali? Il problema è che non sempre abbiamo la costanza nel perseverare nel trovare in ambito comunitario quel punto di equilibrio soddisfacente a garantire i nostri interessi fondamentali.

In secondo luogo dobbiamo superare il falso dilemma tra l’essere propensi al compromesso o “battere i pugni sul tavolo”. L’importante è avere politiche chiare da portare avanti realisticamente, creare alleanze, dare continuità alla nostra azione. E non avere paura di discutere. Ad esempio, il superamento del parametro del 3% del deficit deve cessare di essere un tabù (gli Stati Uniti non sono usciti dalla crisi con un deficit dell’11%?). Certo prima vanno cambiate le regole comunitarie, altrimenti con un debito elevato saremo preda della speculazione dei mercati (ed i mercati siamo noi con i nostri risparmi), con l’inevitabile aumento dei tassi di interesse che peserà sui conti dello Stato e sulla capacità delle imprese di accedere al credito. Ma parlarne non è un crimine.

In terzo luogo dovremmo incominciare ad essere più credibili: ad esempio, com’è possibile che spendiamo male o non spendiamo i fondi strutturali per gli stessi identici motivi di almeno una ventina di anni fa? Il tema dei fondi strutturali, come quello della PAC, è un tema che va affrontato per capire se i meccanismi attuali avvantaggiano ancora il Mezzogiorno, la Spagna, la Grecia ed il Portogallo o solo i Paesi dell’Est, come si incomincia a dire.

In quarto luogo dovremmo smettere di dare facili patenti di europeismo (come una volta si davano di antifascismo). Chi è anti europeista? Chi critica Bruxelles o il Comune contro il quale è stata avviata una procedura di infrazione perché non ha messo i depuratori per le acque reflue? Chi sperpera i fondi strutturali con corsi di formazione farlocchi, non è anti europeista, non genera sentimenti anti europei? Chi non abbatte gli ulivi malati in Puglia nonostante gli avvertimenti comunitari, non lo è? Un’altra domanda: siamo stati tra i più bravi ad utilizzare i fondi del piano Juncker, ma perché nessuno ne ha parlato? E perché non si parla mai del programma Erasmus grande strumento di apertura nei rapporti tra Stati membri? Tutte domande che ci impongono di cambiare se vogliamo uscire dal pantano di incertezze nel quale ci siamo cacciati.

In conclusione, l’Europa può e deve ridiventare un’occasione per modernizzare il Paese e per risolvere la questione meridionale, della quale se ne riparla ora con rinnovato vigore, a condizione che vogliamo veramente cambiare passo e trovare un consenso nazionale sulle politiche europee, senza steccati ideologici ed esclusioni, creando un consenso sugli interessi da perseguire e su come perseguirli, avendo una visione, una coerenza, in una parola abbandonando la vecchia  politica che si può riassumere così: “Siamo in Europa, così Bruxelles ci impone quello che non siamo in grado di imporre ai nostri concittadini".