All'Ue serve un esame di coscienza

Pierre Moscovici
E' stato Ministro dell'Economia e delle Finanze nei governi Ayrault dal 2012 al 2014 e Ministro degli Affari europei dal 1997 al 2002 è Commissario europeo per gli affari economici e monetari.

Più che opportuno è l'appello di Marco Piantini agli europeisti di tutte le tendenze politiche a sottoporsi a un profondo esame di coscienza. Il momento politico che sta attraversando l'Europa ci spinge a porci domande difficili – non è solo necessario, è salutare. Se non abbiamo il coraggio di farlo, allora altri lo faranno per noi e le loro risposte potrebbero non andare a genio ai progressisti e ai democratici europei.

Esame di coscienza non significa esercizio di autoflagellazione: per molte ragioni possiamo essere orgogliosi della nostra Unione europea, che ha compiuto il sessantesimo anniversario l'anno scorso. Il continente un tempo devastato dalla guerra e poi diviso in due da ideologie opposte è oggi uno spazio unito e multinazionale di pace, democrazia e prosperità, dove i diritti fondamentali sono garantiti dallo Stato di diritto.

Dobbiamo essere orgogliosi di questi risultati, mai compiacenti. Come scrive Marco, la nostra casa comune non è stata creata da un intervento divino, bensì da decenni d'instancabile lavoro e di coraggio politico. La costruzione è salda. Ma nessuna casa è indistruttibile.

Non è così remoto il tempo dell'ottimismo sul futuro dell'Europa – si pensi all'atmosfera di festa che aveva circondato l'introduzione dell'euro o l'allargamento storico del 2004. Ma questo tempo è finito.

Il Regno Unito – mai completamente confortevole nei suoi panni europei – se ne va. Il Brexit accadrà tra meno di un anno. Ne usciremo tutti perdenti, anche se il colpo sarà più duro per gli stessi Britannici.

Nel frattempo, in Ungheria e in Polonia, è lo Stato di diritto a essere minacciato. Questo non va: i popoli di Ungheria e Polonia hanno lottato aspramente e atteso a lungo per conquistare la propria libertà. Non si meritano di vederla sminuita dai loro governi.

Dappertutto sul continente, i partiti che attaccano l'Unione – sia per convinzione sia per opportunismo – guadagnano terreno. In Austria e in Italia,  forze euroscettiche e di destra, il cui impegno nei confronti dei valori europei è per lo meno discutibile, hanno un ruolo decisivo nel governo.

Nella Svezia progressista e prospera, i Democratici svedesi corrono davanti per le elezioni politiche dell'autunno. Ma questi partiti non hanno bisogno di entrare al governo per esercitare la loro influenza. È stata l'ascesa dell'UKIP a spingere Cameron a concedere il referendum che ha suggellato il destino del paese. È la paura dell'AfD che sta spingendo la CSU bavarese sempre più a destra, con il rischio di sbilanciare la coalizione tedesca.

Dov'è lo spartiacque tra difesa della sovranità e vero e proprio nazionalismo? Tra populismo e demagogia? La linea è più sfumata che netta, ma ritengo che in molti paesi europei sia già stata varcata.

Marco si chiede se le élite politiche europee siano sufficientemente consapevoli della minaccia che incombe sull'integrazione europea. Hanno il dovere di esserlo!

Dieci mesi ci separano dalle prossime elezioni europee. Molto probabile è il forte calo dei voti per i partiti tradizionali di centrodestra e soprattutto, temo, di centrosinistra. Molto probabile anche la progressione dei nazionalisti e dei demagoghi. Non basterà a formare una maggioranza, ma basterà a rendere il prossimo Parlamento europeo più frammentato e imprevedibile di quanto non sia mai stato. E dopo le elezione, verranno designati i 27 membri della prossima Commissione. Il prossimo Collegio può anche essere molto diverso da quello di cui faccio parte - più diviso, meno coerente, in una parola sola: debole. 

Per affrontare questa minaccia, serve la consapevolezza delle cause profonde del malessere europeo che si è diffuso sul continente. Dobbiamo guardarci allo specchio ed essere onesti sulle mancanze che vediamo. Perciò, dobbiamo analizzare le due crisi che ci hanno colpito e la risposta dell'Europa: la crisi economica e la crisi delle migrazioni.

In primo luogo, la lunga crisi economica – mi riferisco sia alla crisi finanziaria del 2007-9 sia alla successiva crisi del debito sovrano e al periodo di recessione – ha lasciato profonde cicatrici nelle nostre società. Inoltre, la ripresa – che dal 2016 è andata rafforzandosi ¬– non ha certo giovato in ugual misura a tutte le parti della società né a tutti i paesi della Ue.

Per capire questo, è utile riflettere sulla situazione della Grecia. Il 20 agosto finalmente il paese uscirà da otto lunghi anni di assistenza finanziaria. La conclusione del programma greco sarà una tappa decisiva di ciò che è stato un viaggio incredibilmente lungo e doloroso per il popolo greco, ma anche una crisi esistenziale per l'eurozona intera. In che stato i paesi dell'eurozona emergono da questa esperienza traumatica?

Innanzitutto, la Grecia emerge dalla crisi sempre membro dell'eurozona: non era un dato di fatto nelle drammatiche estati del 2012 e del 2015. Credo fermamente che il Grexit sarebbe stato una catastrofe per il popolo greco e per l'euro – la cui irrevocabilità si sarebbe dimostrata un mito. E sondaggio dopo sondaggio, si nota che il popolo greco, nonostante tutti i sacrifici necessari, è rimasto attaccato all'euro.

Il paese emerge dalla crisi anche profondamente riformato e modernizzato. Ciò va oltre al ripristino delle finanze pubbliche, al risanamento del settore bancario o al miglioramento della competitività. Vi sono anche state importanti riforme sociali: la Grecia, ad esempio, ha stabilito per la prima volta un reddito di solidarietà sociale e il diritto a una copertura sanitaria universale.

Ma bisogna esser chiari: tutto questo è di scarso conforto per i pensionati che hanno visto il loro reddito ridotto, per i genitori che hanno visto i loro figli emigrare, o per il 20% dei Greci che sono ancora disoccupati. Ci vorrà una generazione per guarire certe cicatrici.

Le ragioni per cui la crisi è stata così profonda e lunga sono numerose. Certe sono di natura interna: la portata, mal valutata all'inizio, dei problemi da affrontare; la scarsa capacità della pubblica amministrazione greca di concepire riforme di vasta portata; la natura molto conflittuale del sistema politico, che ha reso difficile il raggiungimento del consenso.

Altre ragioni sono da trovare a livello europeo. Nel 2010, non avevamo le strutture, gli strumenti o le procedure per dare assistenza a un paese dell'eurozona in gravi difficoltà finanziarie. Mesi preziosi sono stati persi mentre i capi discutevano del come rispondere. Nel frattempo, aumentava il costo economico del salvataggio. Esperimenti politici come la partecipazione "volontaria" dei creditori del settore privato sono stati mal preparati e hanno esacerbato il panico sui mercati finanziari europei. Il funzionamento della troika formata dalla Commissione europea, dalla Banca centrale europea e dal Fondo monetario internazionale, con le loro diverse culture, priorità e vincoli e la necessità di raggiungere l'unanimità all'Eurogruppo hanno fatto sì che gli accordi fossero spesso ritardati e subottimali.

E oggi? È evidente che l'eurozona è più robusta di quanto era all'inizio della saga greca nel 2010. Abbiamo a disposizione strutture molto più credibili per la supervisione e la risoluzione delle crisi bancarie e, soprattutto, abbiamo un solido firewall finanziario: il Meccanismo Europeo di Stabilità (MES).

Eppure l'unione bancaria è incompleta. Manca la terza tappa, il sistema europeo di assicurazione dei depositi, su cui gli Stati membri fanno fatica a mettersi d'accordo. Il MES rimane una struttura intergovernativa, che attua le decisioni prese dai ministri delle Finanze a porte chiuse in sena all'organismo informale dell'Eurogruppo. Ho denunciato la mancanza di responsabilità democratica dell'Eurogruppo e la Commissione ha presentato proposte per porvi rimedio. Abbiamo chiesto che il MES sia inserito nel quadro comunitario e che sia creato un ministro delle Finanze europeo – una figura riconoscibile che presieda le decisioni del MES e sia responsabile dinanzi al Parlamento europeo.

Queste proposte non sono arguzie istituzionali. Si tratta di iniettare una dose di democrazia in importanti decisioni economiche che riguardano la vita di milioni di europei, spesso – quando si tratta di tagliare nei bilanci – i più vulnerabili delle nostre società. Queste riforme sono secondo me fondamentali per la sostenibilità della nostra unione economica e monetaria.

Vanno completate da un bilancio dell'eurozona e da meccanismi volti a stabilizzare i paesi colpiti da shock asimmetrici e a promuovere la convergenza all'interno dell'area dell'euro, collegati agli adeguati meccanismi d'incentivazione. Perché, se non viene inversa l'attuale tendenza alla divergenza, l'operaio dell'automobile di Wolfsburg continuerà a considerare che l'euro permette ai meridionali di trarre profitto dal suo duro lavoro mentre il giovane precario del Mezzogiorno continuerà a vederlo come lo strumento di un'austerità decisa sotto il mandato tedesco. Per questo, pur concordando con Marco sul fatto che non si può costruire un'unione politica solo attorno all'euro, sono convinto che non avremo mai un'unione politica funzionante se non completeremo la riforma dell'eurozona, nonostante le divisioni fra gli Stati membri.

E che dire della migrazione? La crisi ha varie dimensioni: economica, sociale, culturale, interna, europea e internazionale. Proprio come nel caso della crisi finanziaria, l'Europa non aveva né gli strumenti né le strutture per affrontare l'arrivo di rifugiati e di migranti per motivi economici quando la crisi ha iniziato nel 2015.

La Commissione europea ha sviluppato una strategia ambiziosa per affrontare queste sfide molto complesse, dalla risposta immediata alla situazione di crisi nel Mediterraneo alle misure di lungo termine volte a rafforzare le nostre frontiere. Ma non possiamo agire da soli, e fatto sta che il consenso tra gli Stati membri su come affrontare la migrazione sembra ancora più difficile da raggiungere che nel caso della riforma dell'eurozona.

Posso capire che molti italiani ritengano che il paese non abbia ricevuto la dovuta solidarietà dai suoi partner europei. È un problema che va affrontato. Ma sono anche profondamente preoccupato dalla retorica di alcuni membri del governo italiano e da certe decisioni prese recentemente.

Quale sarebbe una risposta adeguata a questo dramma umano e umanitario? Non sono un esperto, ma so che, in questo campo più che negli altri, dobbiamo essere fedeli ai nostri valori. L'Unione europea è fondata sulla tolleranza, l'uguaglianza, l'apertura e la solidarietà. Dobbiamo garantire che le politiche migratorie che attuiamo a livello europeo e nazionale riflettano questi valori.

Per gli europeisti, è urgente trarre le lezioni di tutto ciò. Le elezioni europee rappresentano una sfida enorme: la nostra Unione sta attraversando una crisi esistenziale e c'è il rischio che il Parlamento diventi ingovernabile. Dobbiamo contrastare le forze populiste in tutti i nostri paesi. Gli europeisti, siano conservatori, socialisti o liberali, devono trovare soluzioni. Non sto accennando a uno scontro tra populisti e un fronte unito di europeisti – questo limiterebbe troppo le scelte dei cittadini e il tempo delle grandi coalizioni viene sempre dopo le elezioni, mai prima. Ma è giunto il momento che gli europeisti apportino soluzioni - soluzioni praticabili, in contrasto con quelle dei populisti. Se riusciremo in questo intento, potremo sperare che i nostri cittadini rivedano l'Europa non come la causa, ma almeno come parte della soluzione ai loro problemi.