Conferenza di Piero Fassino all’Universita di Gorizia, 18 ottobre 2018

A 10 anni dall’ingresso della Slovenia in Schengen. I Balcani e l’Europa

Ringrazio l’Università di Trieste e Gorizia e Dialoghi Europei per l’invito e rivolgo il mio saluto ai Sindaci di Gorizia e Nova Gorica e ai rappresentanti delle istituzioni. E ringrazio gli studenti e i loro docenti che sono oggi con noi.

Sono molto felice di essere nuovamente in queste terre che per un lungo periodo ho frequentato, nelle mie varie responsabilità politiche. Mi sono occupato per molti anni del confine orientale, dei rapporti fra l'Italia e la Slovenia, della vita delle minoranze che vivono al di là e al di qua di un confine oggi aperto, dell’allargamento dell’Unione Europea, seguendo tutti i passaggi dell'integrazione europea della regione.

L’ingresso nel sistema Schengen è state certamente una tappa decisiva nella integrazione europea della Slovenia. E sono molto felice di celebrare oggi il decimo anniversario di quell’evento con il ministro Rupel, con cui ho collaborato quando entrambi avevamo responsabilità di governo. Entrando in questa sala immediato è stato il ricordo di Darko Bratina, un uomo che ha dato moltissimo al dialogo tra Sloveni e Italiani e alla costruzione di una politica di integrazione e di convivenza in una terra ferita nel passato da conflitti e lacerazioni.

In questi giorni si sta celebrando il centesimo anniversario della fine della prima guerra mondiale e da qui vorrei partire, perché molto delle vicende vissute da queste terre ebbero la loro origine nella prima guerra mondiale e in ciò che accadde dopo quel conflitto. Agli studenti che mi stanno ascoltando - e che ringrazio ancora di essere qui - consiglio, se ne hanno l’occasione, di visitare una mostra a Parigi, a Les Invalides, dedicata agli avvenimenti europei fra il 1918 e il 1923, quando dalla implosione e dissoluzione dei grandi imperi - ottomano, tedesco, austro-ungarico e russo - sorsero in Europa centrale e orientale nuovi stati nazionali. Una nuova geografia disegnata dal Trattato di Versailles e dai successivi Trattati collaterali di area, caratterizzata tuttavia da dinamiche turbolente, spesso non condivise e anzi fonte di nuovi conflitti.

Tra il  ‘18 e il ‘23 sulle ceneri degli imperi, nacquero nuove nazioni e si tracciarono nuovi confini, scambiando territori, producendo dolorosi esodi di massa, suscitando nuovi irredentismi. Con l'accordo di Trianon (agosto ‘20) nacque un'Ungheria di superficie pari a un terzo dell'Ungheria austroungarica, cedendo territori a Romania, Cecoslovacchia e Regno dei Serbi, Croati e Sloveni (la futura Jugoslavia). Con gli accordi di Sevres (luglio ‘20) e Losanna (agosto ‘23)si disegnò la spartizione dell’impero ottomano, prevedendo accanto alla Turchia, la nascita di nuove nazioni in Armenia e Kurdistan e la spartizione del Medio Oriente (Siria e Libano sotto protettorato francese, Palestina e regione araba agli inglesi). Con il Trattato di St.Germaine en Laye (settembre ‘19) furono tracciati i confini della nuova Austria e il riconoscimento della sovranità italiana su Trentino, Friuli, Venezia Giulia, Istria e Dalmazia. Confini sanciti definitivamente dal successivo Trattato di Rapallo - giugno ‘20 -  tra il Regno dei Serbi, Croati e Sloveni e Italia.  L’applicazione di quei Trattati conobbe ovunque esodi di popolazioni, prevaricazioni sulle minoranze e conflitti, spesso anche armati, in una sorta di proseguimento della prima guerra mondiale non meno sanguinoso della guerra stessa. Basti ricordare che sul rifiuto degli Accordi di Sevres nacque la deposizione del Sultano ottomano da parte di Kemal Ata Turk e dei “giovani turchi”, che si renderanno responsabili del genocidio degli Armeni e degli eccidi della popolazione greca di Smirne al termine della guerra greco-turca, imponendo con il Trattato di Losanna la riscrittura del Trattato di Sevres. E a conferma di quanto la storia sia segnata da dinamiche di lungo periodo è sul mancato rispetto degli accordi di Sevres che si fonda da un secolo la lotta dei kurdi per una propria nazione indipendente.

La nascita della nuova Europa fu insomma un parto complesso, difficile, doloroso, tant’è che molti storici rappresentano anche la seconda guerra mondiale come la figlia delle contraddizioni e dei conflitti non risolti, ma anzi aggravati, dalla pace di Versailles.

In quegli stessi anni matura la crisi delle democrazie in Germania e Italia con l’avvento del fascismo e del nazismo, e la salita al potere di analoghi regimi autoritari in Ungheria, Polonia, Albania, Romania e Grecia. E i conflitti non risolti dalla pace di Versailles saranno strumentalmente invocati da Hitler nel ‘38 per ottenere con il Trattato di Monaco il controllo di Boemia e Moravia e per imporre all’Austria l’Anschluss.

I conflitti segneranno anche la seconda guerra mondiale e sopratutto nel dopoguerra le decisioni del Trattato di pace di Londra, che ridisegnerà ancora una volta la carta dell’Europa centrale e orientale con nuovi spostamenti di confini e di popolazioni di Germania, Polonia, Cecoslovacchia, Jugoslavia. Si conoscerà l’occupazione di Trieste e di parte della Venezia Giulia da parte di Tito, il passaggio di Istria e Dalmazia alla Jugoslavia e l’esodo di 300.000 italiani costretti ad abbandonare le loro case. Il confine che dividerà in due la città di Gorizia e separerà Trieste e la Venezia Giulia dall’Istria, sara’ un tratto di quella “cortina di ferro” che dalla Finlandia alla Grecia avrebbe diviso in due l’Europa per mezzo secolo, di là il campo comunista egemonizzato dall'Unione Sovietica, di qua il campo occidentale fondato sull’alleanza tra Stati Uniti e nascente Unione Europea.

A pochi chilometri da questa aula correva il “confine del dolore”, figlio di anni di violenze e soprusi: prima, nel 1941,con la dichiarazione di guerra dell’Italia alla Jugoslavia e l'occupazione militare italiana della Slovenia; poi alla fine della guerra la tragedia si rovescia, con l'occupazione titina della Venezia GIulia, dell'Istria, della Dalmazia e l'esodo di centinaia di migliaia di Italiani cacciati dalle loro terre. Ho richiamato tutto questo perché la storia del nostro continente e delle nostre nazioni anche nel ‘900 è stata storia di dolore, sofferenze, conflitti, lacerazioni che hanno investito - e spesso stravolto - la vita di uomini, donne, famiglie, intere comunità. E allora si può apprezzare ancora di più che cosa ha significato la costruzione dell'Unione Europea, un processo di integrazione tutt’altro che scontato in un continente travolto in trent’anni da due guerre mondiali.

Nel 1957 il presupposto dei Trattati di Roma fu la necessità di mettere fine a secoli nei quali i popoli europei si sono combattuti selvaggiamente producendo sofferenze e devastazioni di ogni tipo. E proprio perché le ferite della guerra non erano ancora sanate, i “padri fondatori” scelsero di avviare il processo di integrazione dalla dimensione economica, con la costituzione del MEC, il mercato comune europeo, della CECA, la Comunità Europea del Carbone e dell'Acciaio, e dell’EURATOM con l’obiettivo di scommettere insieme sull'energia nucleare. L'idea che ispira il processo di integrazione insomma è “rivoluzionaria”. È il rovesciamento di secoli di storia nei quali ogni nazione ha pensato e perseguito il proprio futuro a scapito e danno del vicino. Con il  processo di integrazione europea si afferma l'idea esattamente opposta, ovvero che il destino di ogni popolo si costruisca meglio e in modo più sicuro se viene pensato e realizzato insieme al vicino.

E di lì è partito il processo che arriva fino a noi, dandoci settant’anni di pace, una condizione mai conosciuta in nessun secolo dal nostro continente. Il che porta come conseguenza anche il fatto che le nuove generazioni, non avendo conosciuto guerre, considerino un contesto di pace una cosa del tutto ovvia e naturale. Non c'è nessun giovane oggi che pensi che in Europa possa tornare la guerra. E quando noi diciamo che grazie all'integrazione l'Europa ha avuto settant’anni anni di pace, diciamo certamente la verità, ma senza dimenticare in quelle stesse sette decadi in Europa in realtà una guerra c'è stata e proprio in quest’area, nei Balcani travolta da atroci conflitti tra il’91 e il ‘95. 

I vostri genitori se la ricordano. Nelle giornate di giugno in cui fu proclamata l'indipendenza della Slovenia io ero a Lubiana e ho vivo il ricordo dell'incontro con Kučan in occasione della dichiarazione dell'indipendenza.  Mi ricordo anche qualche ora dopo un drammatico colloquio notturno - in uno spettrale e deserto hotel nel castello di Oto Pec - con Iviça Račan, il leader dei comunisti croati che mi annunciò che di lì a poche ore sarebbe iniziata la guerra contro Belgrado per l’indipendenza della Croazia. Mi ricordo le visite in una Sarajevo martoriata dai bombardamenti serbi e la tragedia di Srebrenica, dove 8000 uomini furono sterminati dalle milizie serbe di Mladic per il solo fatto di essere musulmani. Ecco, la guerra nei Balcani - con il suo carico atroce di eccidi, pulizia etnica, stupri sistematici delle donne, campi di concentramento - dimostra a maggior ragione come l'Unione Europea sia stata un fattore di stabilità e di pace assolutamente essenziale, tant’è che nelle regioni esterne all’Unione - i Balcani, il Caucaso, l’Ucraina - c'è stata la guerra.

Schengen e l'euro sono stati i due strumenti fondamentali con cui il processo di integrazione europea si è consolidato. Nata nel 1957 con i Trattati di Roma, l’integrazione europea è cresciuta via via, allargando numero di Stati partecipanti e spazio territoriale: la “nuova Europa” nasce con sei nazioni, che poi diventano nove, di dodici, di quindici paesi dell’Europa occidentale. Poi, caduto il muro di Berlino, dal 2004 l’Unione Europea si allarga ad est e a sud, fino a ricomprendere ai 28 nazioni - che diventeranno 27 quando la Gran Bretagna uscirà - e avendo almeno altri dieci Paesi, dai Balcani al Caucaso, dall’Ucraina alla Moldavia che aspirano a divenire membri dell’Unione. Peraltro proprio alla integrazione nelle istituzioni euro-atlantiche - UE e Nato - fu affidata la stabilità e la sicurezza nei Balcani nel dicembre 1995, al termine delle guerre balcaniche. Con gli accordi di Dayton si garanti’ ai Balcani l’integrazione nelle istituzioni euroatlantiche, cioè l'ingresso nella Nato e nell'Unione Europea, come scelta di stabilizzazione definitiva di una regione da sempre caratterizzata da un alto tasso di conflittualità. Del resto il neologismo “balcanizzazione” fu coniato proprio per indicare una realtà caratterizzata da una persistente, continua e irreversibile conflittualità.

Come sappiamo l’integrazione dell’Europa sudorientale è stata perseguita. Slovenia, Romania, Bulgaria e Croazia sono oggi membri dell’UE. Serbia, Montenegro, Albania, Macedonia e Bosnia hanno avviato il percorso di adesione, che recentemente la Commissione Europea ha indicato potersi concludere, almeno per alcune di quelle nazioni, nel 2025. E analogamente la NATO ha aperto le sue porte a Bulgaria, Romania, Slovenia, Croazia, Albania e Montenegro.

Un processo tanto più necessario a fronte delle non poche criticità che ancora si manifestano nella regione.

In Bosnia Erzegovina - fondata su una complessa architettura istituzionale che tiene insieme tre comunità etniche e due Federazioni - le recenti elezioni sono state contestate, in uno scenario costantemente esposto al rischio della dissoluzione. In Macedonia sono ricorrenti gli episodi di conflitto tra macedoni e albanesi e la stessa maggioranza macedone è lacerata, come si è visto nel recente referendum sull’annosa questione del nome del paese.  E l’accordo raggiunto tra i governi - e cioè che la Macedonia indipendente assuma la denominazione “Macedonia del Nord” - è stato boicottato nel referendum, a dimostrazione di quanto conflitti latenti mettano a rischio la stabilità e la sicurezza della regione. Il contenzioso tra Serbia e Kosovo non ha per ora trovato soluzione e i negoziati promossi dall’Unione Europea procedono con lentezza esposti continuamente a battute d’arresto. Persino tra Slovenia e Croazia - paesi stabili e membri dell’UE - è tuttora aperto un contenzioso sui confini marittimi.

Insomma risulta evidente come l’integrazione europea sia l’unica garanzia per dare stabilità e sicurezza ai Balcani. Una evidenza razionalmente fondata, ma tuttavia non scontata. Non mancano coloro che guardano alla integrazione dei Balcani con diffidenza. Sono spesso gli stessi che recriminano l’allargamento ad est avviato dal 2004. A mio parere sono obiezioni non fondate. L’allargamento ha consentito a paesi dominati per mezzo secolo dall’Unione Sovietica di realizzare, in uno spazio temporale di pochi anni, il passaggio alla democrazia e all’economia di mercato, con risultati che assai difficilmente si sarebbero ottenuti se l’Europa centrale fosse stata una “terra di mezzo” priva di ancoraggi internazionali e esposta a ogni forma di tensione e instabilità. E proprio la Slovenia e’ la conferma di quanto l’appartenenza all’Unione Europea sia stata decisiva per garantirà al Paese stabilità politica, coesione sociale e crescita economica.

Abbiamo cercato finora di motivare perché l'integrazione europea sia stata una grande opportunità, grazie alla quale i popoli e le nazioni europee sono cresciuti e possono guardare al futuro con maggiore fiducia. Però oggi quest'affermazione, che dieci anni fa era universalmente riconosciuta, oggi non lo è più. C'è in Europa anche un'altra lettura, ovvero che l'integrazione europea non sia un'opportunità ma un costo, un vincolo e non un'occasione, un peso che frena le possibilità che ogni paese avrebbe se fosse libero e solo. Gli andamenti elettorali degli ultimi tre o quattro anni in vari paesi - Germania, Olanda, Francia, Austria, Italia, Slovenia, Ungheria, Polonia, Svezia, Baviera - ovunque hanno registrato l’affermazione di movimenti e partiti che si sono presentati agli elettori con parole d'ordine che contestano il processo di integrazione europea. Abbiamo il dovere di chiederci perché accade.

Le ragioni principali sono molte, ma per brevità ne indico due.

La prima sta nella crisi economica e sociale che abbiamo affrontato. Alle spalle abbiamo infatti dieci anni di crisi, dal 2007 al 2016,  che hanno messo in discussione per molti la certezza del lavoro, la sicurezza del reddito, il futuro dei figli. Le crisi producono delle lacerazioni e chi ne viene particolarmente  colpito cerca dei responsabili: si è affermata così la convinzione che la crisi sia stata più dura perché l’Europa non è stata in grado di affrontarla. Si tratta di una lettura di comodo, tant'è vero che ci sono paesi che non fanno parte dell'Unione Europea che hanno subito la crisi negli stessi termini dell'Unione. Tuttavia a una parte dei cittadini l’Europa è apparsa responsabile delle minori certezze di vita. E si è affermata l’idea - ampiamente amplificata da movimenti antieuropei - che sia meglio “difendersi da soli”.

Alla stessa conclusione si arriva anche sulla base dell'altra ragione che induce molti a guardare all’Unione Europea con diffidenza: l’impatto della globalizzazione. Il processo di integrazione europea, nato nel 1957, per cinquant'anni ha potuto crescere in un mondo che non era globale. L’Unione poteva dedicarsi a far crescere l’Europa senza che influenze esterne. Ciò che succedeva fuori del nostro continente non incideva sulla nostra vita. La Cina, l'India, il Brasile, i paesi emergenti che oggi sono protagonisti dell'economia globale, fino alla fine del Novecento non erano presenze economiche rilevanti. E quindi l’Europa poteva perseguire tutte le sue politiche in modo autosufficiente. Da vent'anni a questa parte lo scenario è cambiato radicalmente, con nuove grandi potenze globali e con tanti altri paesi emergenti. Uno scenario che ha cambiato le modalità della competizione economica con asimmetrie competitive nel costo del lavoro, nelle politiche ambientali, nelle politiche di investimento , nelle regole del lavoro, nelle politiche fiscali. E tutto ciò ha determinato in una parte dell'opinione pubblica l'idea che l'Unione Europea non sia in grado di offrire tutele. E da qui la suggestione - anch’essa fortemente sostenuta e amplificata da movimenti antieuropei - di erigere muri, chiudere frontiere, ripristinare dazi e dogane. È entrato nel lessico politico anche un nuovo termine, “sovranismo”, per definire quell’orientamento politico. Insomma chiudersi nella propria sovranità nazionale e farsi più piccoli, con l'illusione di difendersi così meglio. Ma farsi più piccoli in un mondo grande rende soltanto più vulnerabili. È come blindarsi in casa e non uscirne più: non si è più sicuri, si è solo prigionieri.

Il tema vero quindi è come l'Unione Europea debba affrontare questa situazione e sopratutto come riconquistare la fiducia di chi oggi non ce l'ha e guarda all'Europa come un rischio. La risposta sta in un rilancio dell’integrazione che sia capace di riformare l’Unione, superando le inadeguatezze e i limiti dell’Europa di oggi.  Alcuni esempi: abbiamo moneta unica e mercato unico, ma non abbiamo una politica fiscale comune, con sistemi di tassazione diversi da Paese a Paese, favorendo così ineguale competizione, disinvestimenti e delocalizzazioni. Fiat-Chrysler ha trasferito la sede legale in Olanda per sfruttare una legislazione fiscale più favorevole. I giornali italiani hanno dato ampio rilievo negli scorsi mesi alla decisione di una multinazionale che ha chiuso una sua azienda ubicata a Torino per trasferire la produzione non in Cina, ma in Slovacchia, perché in quel Paese la fiscalità è più favorevole.

Se un sistema economico vuole essere integrato deve integrare tutti i fattori: la moneta, il mercato, ma anche le normative fiscali, le politiche per gli investimenti, le regole del mercato del lavoro, le tutele ambientali. Insomma, una politica economica comune e non solo una politica monetaria.

Analogamente si può dire per Schengen. La  libera circolazione è stato uno straordinario fattore di unificazione, di integrazione, di comune identità: un giovane d'oggi non si sente solo italiano, tedesco o polacco, ma parimenti europeo.  Schengen è dunque l'inizio di una cittadinanza europea, che richiede altri passi: l’unificazione dei titoli di studio, l'accesso omogeneo alle professioni, l’armonizzazione di diritti fondamentali in materia di famiglia, tutela dell’infanzia, parità di genere, orientamento sessuale.

Allo stesso modo l’Unione Europea ha bisogno di darsi una dimensione sociale. Fino ad oggi quest’obiettivo e stato perseguito attraverso i fondi europei che hanno sostenuto politiche di sviluppo e di coesione, in primo luogo nei territori più svantaggiati. È tempo di un salto di qualità, costruendo un vero modello sociale europeo e puntando alla armonizzazione delle politiche educative, dei sistemi sanitari, dei regimi previdenziali, degli ammortizzatori sociali, a partire da uno strumento europeo di contrasto alla disoccupazione.

E ancora: in un mondo globale percorso da conflitti, tensioni, instabilità, l’Unione Europea può essere un attore globale solo se si da una politica estera comune, parla con una sola voce, agisce con una sola mano. Ed è significativo che anche sulla sicurezza, tema su cui fortissima è la gelosia degli Stati nazionali, negli ultimi due anni - sotto l’incalzare delle turbolenze del Mediterraneo, della crisi russo-ucraina, dell’offensiva del terrorismo - l’Unione Europea abbia deciso di avviare una politica di difesa e sicurezza comune. Insomma: di fronte alle sfide del mondo globale serve più Europa e un’Europa migliore. E dopo i Trattati del ‘57 e dopo Maastricht e l’euro, e’ tempo di una “terza fase costituente” dell’Unione Europea.

Il tema non è dunque rinchiudersi, ma come rilanciare l’integrazione ad un livello più intenso ed efficace. Dobbiamo fare i conti con la Cina, che conta un miliardo e trecento milioni di abitanti e una crescita economica di dieci punti all'anno. Dobbiamo fare i conti con l'India, un miliardo di persone, una crescita dell'economia di otto-nove punti all'anno. Dobbiamo fare i conti con un crescente numero di paesi emergenti, dal Messico all’Angola, dal Cile al Vietnam, dalla Nigeria all’Indonesia. Nessun paese europeo, neanche la Germania, ce la può fare da solo. Ce la può fare un'Europa di cinquecento milioni di persone che mette a fattor comune il suo potenziale economico, tecnologico, finanziario, sociale, politico, facendo dell'Europa l'area più forte e competitiva del mondo.

Valga questo esempio: la Banca mondiale e il Fondo Monetario Internazionale, due istituzioni che regolano l'economia finanziaria, sono da sempre guidati nelle cariche principali dagli Stati Uniti. Pensate se in quelle istituzioni l'Europa sedesse non con 28 rappresentanti ma con uno solo a nome di tutti i Paesi del continente: la Banca Mondiale e il FMI verrebbero guidati dall'Europa non dagli Stati Uniti.

Peraltro siamo tutti testimoni del travaglio che vive da mesi la società inglese, sempre più smarrita e inquieta di fronte a una Brexit che si rivela assai più problematica e rischiosa di quanto sbrigativamente hanno pensato coloro che hanno sollecitato gli elettori a votare per l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea.

Questo significa che le identità nazionali vengono meno?

No, come non vengono meno gli interessi nazionali. Le identità esistono perché hanno radici nella storia, nella lingua, nelle religioni, nella cultura, nel vissuto di un popolo. Così come esistono gli interessi di ogni nazione. Il problema è come rappresentarli e tutelarli. Lo si può fare in due modi: il primo è chiudersi nei propri confini e ridurre ogni forma di integrazione, ma chi si chiude sara’ più debole e esposto a continui conflitti, che nella forma più estrema possono anche arrivare - come e’ accaduto nei Balcani - all’uso delle armi.

L’alternativa è affermare interessi e identità in uno scenario più grande, nella dimensione europea.

L’Italia, ad esempio, ha certamente interessi propri in campo agricolo, come la tutela da ogni forma di imitazione della tipicità e della originalità dei prodotti, un tema che per l'Italia è molto più forte rispetto a paesi come la Germania o l'Olanda, che sono produttori di agricoltura seriale. Un interesse italiano che va affermato nella politica commerciale europea, battendosi  perché quest'ultima lo riconosca e lo tuteli. L’accordo che l'Unione Europea ha sottoscritto con il Canada qualche mese fa - e che è in fase di ratifica nei Parlamenti dei paesi europei - individua  una lista di prodotti, per l'Italia sono 42, a denominazione riconosciuta anche dalle autorità canadesi e per i quali è vietata ogni forma di imitazione, come invece avveniva sino a oggi. E così accadrà con l’accordo tra UE e Giappone.

Così sul piano politico, l’Italia ha un interesse strategico alla stabilità del Mediterraneo che potrà essere perseguito non se ogni Paese - come oggi purtroppo accade - pratica una sua strategia nazionale, ma se l’Unione Europea riesce a darsi una strategia comune. E dunque la miglior tutela dell’interesse italiano consiste nel battersi per una politica europea nel Mediterraneo. E peraltro su un tema cruciale come l’immigrazione abbiamo tutti vissuto cosa significhi l’assenza di una solidarietà europea e quanto sia urgente superare la renitenza di molti Stati nazionali ad assumere e condividere una strategia europea.

Più in generale vorrei esporvi un altro esempio su come affermare interessi e identita’. Alle elezioni presidenziali francesi di un anno e mezzo fa Martine Le Pen, candidata della destra, si è presentata con un programma che prevedeva la sospensione di Schengen, il ripristino di dazi e dogane, il blocco delle importazioni dai paesi terzi, motivando tali misure come indispensabili per difendere l’identità francese e far “ritornare grande la Francia”. Macron ha rovesciato il ragionamento: “certo, ha detto, la Francia deve tornare a essere grande, ma può esserlo soltanto se è grande e forte in Europa”. Macron ha saldato l'affermazione degli interessi e dell'identità nazionali a una prospettiva europea e così ha vinto. Penso che ogni governante europeo che abbia a cuore le sorti del proprio Paese dovrebbe ragionare e agire in modo analogo.

Tutto questo richiede anche un salto di qualità nella governance europea. Certo governare una istituzione di 28 Stati e’ complesso. Anche perché l’Unione Europea è una istituzione sovranazionale che coesiste con le sovranità degli Stati nazionali che l’Unione hanno costituito. E la complessità è accresciuta dalla coesistenza di due dimensioni istituzionali di governance: la dimensione comunitaria - rappresentata da Commissione e Parlamento Europeo - e la dimensione intergovernativa che si esprime nel Consiglio Europeo, dove siedono i Capi di Stato e di Governo. E negli ultimi anni la dimensione intergovernativa ha via via espanso le sie prerogative, riducendo spazio e autonomia della Commissione.

Per rimediare a tale complessità non manca chi periodicamente propone un’Unione Europea a velocità differenziate o cerchi più ristretti. Peraltro già oggi l’Unione conosce formati diversi. L’euro e’ adottato da 19 paesi; il sistema Schengen riunisce solo una parte dei membri dell’Unione; la cooperazione rafforzata in materia di difesa comune e’ stata sottoscritta da 25 paesi. E’ del tutto evidente che se alcuni Paesi ritengono di procedere a una più organica integrazione non lo si debba impedire. Decisivo però è che sempre ogni formato sia aperto all’adesione, anche successiva, di chi desidera parteciparvi e che il quadro istituzionale coinvolga sempre e comunque tutti i paesi membri.

L’Eurozona, che riunisce i paesi che adottano l’euro, è già oggi una realtà e rappresenta un più alto livello di integrazione, con la consapevolezza che solo un’Europa unita può assicurare ai propri cittadini stabilita, sicurezze e prosperità. Peraltro proprio guardando alla crescita conosciuta dalla Slovenia dopo il suo ingresso nell’Unione Europea, si può ben constatare i benefici che derivano a una nazione dall’essere parte piena dell’integrazione europea. E viceversa di quell’ingresso ha beneficiato anche l’Italia e in particolare ne hanno beneficiato Trieste e la Venezia Giulia, che dopo essere state per cinquant’anni compresse da un confine chiuso, oggi si trovano al centro della nuova Europa, potendo cogliere grandi opportunità di scambi, investimenti, crescita. Ed è per questo - concludendo - che il nostro comune cammino europeo deve continuare.