Articolo di Dario Conato

Cento giorni di proteste e repressione in Nicaragua, alla ricerca di un’alternativa democratica

Le proteste iniziate il 18 aprile di quest’anno in Nicaragua mostrano come la democrazia, i diritti umani, l’auto-organizzazione sociale, la libertà di costituirsi in partiti e movimenti, il diritto al riconoscimento della dignità politica e all’alternanza democratica non possano essere messi da parte in cambio di interventi di un qualche interesse sociale, misure di compensazione verso forme di economia popolare o lotta alla criminalità organizzata.

Sul finire del secolo scorso il Nicaragua, che oggi ha 6,2 milioni di abitanti, aveva attirato la simpatia di tutto il mondo per la rivoluzione contro la dittatura dei Somoza: com’è potuta esplodere che ha prodotto in tre mesi oltre 400 morti, 1.500 feriti e un numero imprecisato di desaparecidos?

È bene prima di tutto considerare alcuni fattori di natura economica, sociale e politica.

Nel primo trimestre del 2018 i dati economici diffusi dalle istituzioni finanziarie nazionali e internazionali indicavano nel Nicaragua il paese con le dinamiche più promettenti di tutto il continente latinoamericano. Ma al tempo stesso il Nicaragua mantiene il 30° posto su 32 paesi di America Latina e Caraibi per Prodotto Interno Lordo pro capite sia in termini nominali sia a parità di potere di acquisto. Il governo del Presidente Daniel Ortega Saavedra e della moglie Rosario Murillo (Vice-Presidente) ha realizzato numerose opere di consolidamento e pavimentazione delle strade interurbane e di miglioramento delle infrastrutture energetiche, anche grazie alla cooperazione internazionale. Sino allo scorso mese di aprile Ortega ha mantenuto ottimi rapporti con i grandi e medi imprenditori nicaraguensi e stranieri (statunitensi in particolare), garantendo loro piena libertà di investire, sfruttare le risorse naturali, accedere alla manodopera con salari minimi fra più bassi di tutta l’America Latina in un paese con i minori tassi di violenza e pressione della criminalità organizzata dell’istmo centroamericano.

Sul piano sociale il Nicaragua ha registrato negli ultimi anni una notevole diminuzione della popolazione in condizioni di povertà: dal 42 al 24,9 % secondo fonti ufficiali. Tuttavia la povertà si mantiene ad alti livelli. L'Indice di Sviluppo Umano misurato da UNDP per il 2015 collocava il Nicaragua al 124° posto, molto al di sotto del 112° posto del 2006 ma in ripresa rispetto al crollo registrato fra il 2009 e il 2013. Grazie alla rendita petrolifera di cui ha goduto per molti anni,  il Venezuela di Chávez e Maduro ha inviato al governo nicaraguense flussi ingenti di petrodollari, in parte investiti in programmi di assistenza sociale che tuttavia non riducono in modo strutturale la vulnerabilità dei gruppi cui si rivolgono.

Presidente della Repubblica dal 2007, Ortega era uno dei dirigenti del FSLN quando nel 1979 l'insurrezione popolare guidata dal Fronte e appoggiata da tutti i settori dell'opposizione abbatté la dittatura della dinastia dei Somoza. Fu poi coordinatore del governo provvisorio fino al 1984 e quindi Presidente della Repubblica fino al 1990. Negli anni Ottanta il Nicaragua fu teatro di una sanguinosa guerra civile che oppose il governo alla guerriglia di destra dei Contras, sostenuti dagli Stati Uniti. Le elezioni del 1990 videro la vittoria della coalizione dei partiti anti-sandinisti, l'Unione Nazionale di Opposizione (UNO): la guerra terminò ed ebbe inizio un lungo periodo di governi di orientamento liberale. Con la sconfitta elettorale si avviò all’interno del FSLN uno scontro di natura ideologico-programmatica che portò nel corso degli anni all’allontanamento di molti dei dirigenti più popolari, alcuni dei quali confluirono nel Movimento Rinnovatore Sandinista (MRS), di orientamento socialista democratico. Dopo varie sconfitte, Ortega venne rieletto nel 2007 con una nuova legge elettorale permetteva l’elezione del presidente anche con una modesta maggioranza relativa dei voti. Nel corso degli anni Ortega ha imposto una riforma della Costituzione che permette la rielezione indefinita del presidente. Sentenze del Tribunale Supremo Elettorale hanno di fatto paralizzato le principali forze di opposizione, conducendo all’elezione nel 2016 di un parlamento composto per l’80 % da deputati del FSLN e da un piccolo gruppo di rappresentanti di partiti-satellite.

Le rivolte iniziate in aprile sono il prodotto dell'insofferenza di ampie fasce della popolazione verso l'autoritarismo attribuito al governo di Ortega e Murillo. L'esaurirsi del flusso di aiuti venezuelani era una delle cause di una riforma del sistema previdenziale che avrebbe colpito fortemente lavoratori, pensionati e imprenditori: è stata questa la scintilla di una rivolta che si è poi estesa a tutto il paese chiedendo le dimissioni di Ortega e Murillo e la convocazione di elezioni generali. Il movimento contro la riforma previdenziale, nato nelle università, si è saldato con movimenti sociali che non erano riusciti sino a quel momento a imporsi su scala nazionale: contadini e popolazioni indigene, movimenti femministi, movimenti ambientalisti e numerose situazioni locali di disagio dovute alla scarsa qualità dei servizi pubblici e ai criteri clientelari con cui questi vengono spesso gestiti.

Dopo una prima fase di minimizzazione, il Governo è passato via via alla delegittimazione e quindi alla criminalizzazione: sono ormai centinaia i giovani incarcerati accusati di terrorismo. La Legge Antiterrorismo approvata nei giorni scorsi rende possibile estendere la definizione  di “terrorismo” a qualsiasi manifestazione di protesta. L’attacco politico è accompagnato da una violentissima risposta armata attraverso la Polizia Nazionale, i reparti antisommossa e gruppi paramilitari che si muovono insieme alle forze regolari e che sono equipaggiati con fucili di precisione.

Circa il 10 % dei morti di questi mesi appartiene alle forze di polizia e alla militanza del FSLN, dato che testimonia il fatto che in alcune circostanze gruppi di oppositori abbiano fatto ricorso anch’essi a forme di violenza estrema (vi sono tuttavia casi in cui i familiari di poliziotti uccisi hanno accusato le stesse forze dell’ordine degli omicidi, che sarebbero stati realizzati per “liberarsi” di agenti che avevano espresso critiche verso la gestione della crisi).

In questo quadro resta enigmatica la posizione dell’Esercito, che non è mai intervenuto contro i dimostranti e i cui comandi non si sono mai pronunciati su quanto sta avvenendo nel paese. Molti si chiedono perché l’esercito non intervenga a disarmare i gruppi paramilitari, come dovrebbe avvenire in un quadro costituzionale: va tuttavia considerato che i paramilitari agiscono quasi sempre di concerto con le forze della Polizia Nazionale e un intervento dell’Esercito si trasformerebbe automaticamente in uno scontro tra forze armate e quindi in un vero e proprio colpo di Stato.

Il governo Ortega non riconosce le profonde radici sociali del movimento di protesta e lo accusa di essere il braccio operativo dell’imperialismo internazionale. In realtà in questi anni il governo del Nicaragua – al di là di slogan rivoluzionari e di richiami formali all’anti-imperialismo - ha cercato di accreditarsi presso gli Stati Uniti come un attore affidabile nel contesto centroamericano, garante della stabilità economica, ostacolo per i narcos e argine nei confronti dei flussi migratori. Gli Stati Uniti stanno applicando nei confronti del Nicaragua alcune restrizioni di natura finanziaria cui si aggiungono prese di posizione di natura politica: si tratta di azioni che è molto difficile leggere come parte di un piano golpista.

Un altro bersaglio degli attacchi del governo di Ortega e Murillo è costituito dalle forze politiche di opposizione cui viene attribuita una capacità di mobilitazione che non sembra credibile, date le condizioni di marginalità in cui queste forze sono costrette a muoversi. In realtà l’Alleanza Civica per la Giustizia e la Democrazia, che coordina le iniziative di lotta, non ha un programma politico definito, al di là delle richieste contenute nella sua stessa denominazione. Vi confluiscono correnti di pensiero, settori sociali ed esperienze molto diverse.

Nelle ultime settimane il governo ha duramente attaccato la Chiesa cattolica nicaraguense, mediatrice nei sinora infruttuosi incontri del Dialogo Nazionale, accusandola di non essere un soggetto neutrale e anzi di essere “complice” dei movimenti di protesta. La Santa Sede segue da vicino la situazione nicaraguense: Papa Francesco ha ricordato pubblicamente più volte la sua preoccupazione per il Nicaragua e la sua vicinanza alla Chiesa di quel paese, anche se manca ancora secondo alcuni una reazione forte e inequivocabile a un attacco politico-mediatico che non ha precedenti in America Latina.

Il drammatico quadro della situazione in Nicaragua fornito dalla Commissione Interamericana per i Diritti Umani dell’Organizzazione degli Stati Americani e le denunce dell’Alto Commissario per i Diritti Umani delle Nazioni Unite e di organizzazioni umanitarie internazionali e nicaraguensi hanno scosso una comunità internazionale che per diverse settimane non ha prestato particolare attenzione a quel che stava accadendo nel paese. La risoluzione di condanna approvata il 18 luglio dal Consiglio Permanente dell'Organizzazione degli Stati Americani contro la repressione governativa in Nicaragua segna un punto di non-ritorno nell'isolamento internazionale del regime di Ortega. Crepe cominciano a intravedersi anche nel quadro di una sinistra latinoamericana che ha assistito attonita a quanto stava avvenendo, limitandosi per mesi a rituali accuse ai “piani dell’imperialismo yankee”: ricordiamo per tutte la presa di posizione dell’ex presidente uruguaiano Mujica che ricorda a Ortega che “ci sono momenti nella vita in cui bisogna dire ‘me ne vado’ ”.

Il Nicaragua si trova a un bivio: o tutte le forze politiche, economiche e sociali del paese riconoscono la necessità di ricostruire la democrazia dalle fondamenta attraverso la separazione dei poteri legislativo, esecutivo, giudiziario ed elettorale, oppure il rischio di uno scivolamento verso un regime sempre più autoritario cui potrebbero opporsi forme di lotta armata diventa altissimo. Sino ad ora il movimento di protesta si è mantenuto sostanzialmente sul piano della non-violenza, come mostra il triste bilancio dei morti e dei feriti. Non si può tuttavia escludere che, in uno scenario estremamente drammatico, in alcune zone del paese il conflitto politico-sociale possa prendere le forme d guerra civile vera e propria.

Al di là di quella che sarà l’evoluzione della situazione nicaraguense, tutti gli osservatori concordano che gli scontri di questi mesi lasceranno nella società ferite difficili da rimarginare:

  • una profondissima polarizzazione politica e sociale;
  • un mutamento radicale, in negativo, nella percezione popolare dello Stato e della sua legittimità formale e sostanziale
  • la comparsa di un nuovo soggetto mai visto prima d’ora in Nicaragua, quello dei gruppi paramilitari, con il rischio che questi non si sciolgano ma si trasformino in organizzazioni criminali armate incontrollabili;
  • la consapevolezza da parte del variegato schieramento della protesta che d’ora in poi qualsiasi battaglia di opposizione potrà ricevere una risposta molto dura, anche grazie alla recente legge antiterrorismo.

Secondo risultati di un’inchiesta realizzata il 17 luglio da Grupo Cívico Ética y Transparencia, il 79 % delle persone intervistate si dichiarano a favore di elezioni anticipate, il 63 % condanna il comportamento del presidente Ortega mentre il 28 % lo approva, il 77 % appoggia il ruolo assunto dai vescovi  mentre il 18 % lo critica, il 56 % è soddisfatto del ruolo che sta giocando l’Alleanza Civica contro un 28 % che lo disapprova.

Il consolidamento della democrazia richiede – oltre al riconoscimento, da parte di chi oggi detiene il potere, della legittimità dello scontro sociale, - l’esistenza un’opposizione organizzata, in grado di trasferire sul piano della dialettica politico-elettorale le spinte che si esprimono nel paese. La crisi nicaraguense ha tra l’altro fatto crollare l’illusione (presente in ampi settori della sinistra latinoamericana) che l’unico interesse del popolo sia l’’inclusione sociale mentre non avrebbe interesse per questioni considerate più o meno “formali” quali la democrazia, la trasparenza, i diritti politici e civili. Particolarmente urgente è la sfida che si trovano davanti le deboli forze della sinistra riformatrice nicaraguense: costruire una credibile proposta di trasformazione che sappia coniugare la giustizia sociale ed economica con il pieno sviluppo delle libertà democratiche.

Per un approfondimento dei temi affrontati in questo articolo, si rimanda a : Nicaragua: la tragedia di un paese che chiede democrazia, giustizia e diritti